Meglio dirlo subito, per non essere accusati di nepotismo, anche se basta leggere tre pagine di Annalena, Einaudi, per capire  che è un’opera così pregiata che casomai chi  potrebbe  pavoneggiarsi per la parentela sarei io: Annalena Benini, l’autrice del libro uscito per Einaudi che porta il suo nome (anche se parla soprattutto di un’altra Annalena), è mia nipote, la figlia maggiore di mia sorella Donatella. Compare insieme a lei nel mio primo libro Non vi lascerò orfani, con sua sorella Silvia, suo padre Stefano, i miei genitori e il gatto Micione. Non siamo una famiglia numerosa, ma siamo simili. Ci fanno piangere e ridere le stesse cose, siamo criticoni, ansiosi, esagerati, leggiamo compulsivamente, stravediamo per gli animali e i neonati, romanziamo tutto, siamo impazienti e abbiamo una chat di famiglia con la foto profilo del pasticcio di maccheroni che si mangia a Ferrara.

Annalena è un nome di famiglia: si chiama così anche l’ultima sorella vivente di mio padre, la bellissima zia Annalena novantenne,  poi la cugina “dell’Argentina”, una sua nipote e un’altra cugina che vive a Firenze .

E poi c’era lei: Annalena Tonelli, che ha ispirato il libro di Annalena Benini. Annalena Tonelli era la nostra cugina missionaria in Africa, la cugina più intelligente e coraggiosa, la figlia della Teresina Bignardi, la santa, la pazza a fare quella vita, la cugina con gli occhi azzurri come mio padre, la cugina ammazzata con un colpo di fucile vent’anni fa, a Borama, in Somalia.

LA DANNAZIONE DI SCRIVERE

Annalena Benini (Foto LaPresse)

Vent’anni fa  Annalena nostra lavorava già da due al Foglio e già scriveva benissimo come adesso. Annalena nostra è colta, spiritosa, materna, ha due figli, due gatti, un cane, è madrina di due gemelli di pochi mesi e di centinaia di autrici e autori. Ma ha un talento che ha fare col suo modo unico di sentire, di pensare e di scrivere: un fenomeno naturale, un fiume che scorre sotterraneo per poi zampillare spudorato, spietato, tenero, e che  lascia commossi e senza parole. Annalena sa trasformare la vita in parole e le parole in vita, qualunque cosa scriva, con profondità e leggerezza.

Non è solo un dono: è anche una dannazione. Chi sa scrivere è condannato a farlo per sempre, prima di ogni altra cosa, prima di curare gatti e neonati, prima di andare al mare, persino prima di mangiare il pasticcio di maccheroni.

Prima di questo libro – che è insieme un memoir, una biografia e un romanzo filosofico  – Annalena ne ha pubblicati altri due. Contenevano già alcuni dei temi che qui splendono come comete: la vocazione, il materno, la letteratura, le donne.

Il primo era una raccolta di interviste a scrittrici e scrittori che non parlano quasi mai di sé stessi, ma con lei sì – come Melania Mazzucco o Michele Mari – sulla vocazione letteraria: La scrittura o la vita (Rizzoli). Credo che in quel libro Annalena cercasse le prove di quel che sapeva già benissimo ma stentava ad accettare, per buona educazione o modestia (lei direbbe per pigrizia): il fatto che lei stessa fosse una scrittrice nata, oltre che una giornalista, e che quel che diceva Marina Cvetaeva nel 1919 e che aveva scelto come esergo («Perché scrivo? Scrivo perché non posso non scrivere») parlasse di sé. Il secondo era un’antologia di racconti di scrittrici, pubblicato da Einaudi e intitolato I racconti delle donne. E anche qui, scegliendo, studiando e commentando i racconti più belli di scrittrici come, fra le altre, Clarice Lispector, Virginia Woolf, Natalia Ginzburg, Alice Munro e Dorothy Parker, cercava e trovava prove schiaccianti su quello di cui voleva e doveva scrivere.

IL DIVIETO È UN FIAMMIFERO

Come racconta in Annalena, nella nostra famiglia, fino a che è stata viva mia madre, che delle sue due nonne – comparse in sogno ai  piedi del letto mentre  rischiava di morire di polmonite – è quella moderna che diceva le parolacce e «aveva molti libri, giornali e cianfrusaglie ammonticchiati qua e là in un appartamento pieno di peli di gatto», da quando Annalena Tonelli fu uccisa in Somalia da un commando di fondamentalisti che non sopportavano che curasse le donne e i bambini, non si poteva parlare di lei.

Quando Annalena era viva, mia madre ricordava spesso la bellissima bambina bionda che veniva a giocare nel nostro giardino di Castel San Pietro e poi l’audace missionaria che era andata a lavorare al servizio dei poveri in Africa. Quando fu uccisa smise di nominarla, proprio come non nominava la propria madre, mia nonna Adele, perché era morta quando lei aveva 17 anni. Mia madre Giannarosa, per Annalena “la nonna Gianna”, era terrorizzata dalle disgrazie. Non riusciva a elaborarle, cercava di rimuoverle non nominandole. E la fine violenta di quella meravigliosa cugina di Forlì che portava il nome della sua prima nipote l’aveva pietrificata.

Invece Annalena nostra, che aveva antenne sensibili per le storie di vite rivendicate dalla letteratura, naturalmente ne fu rapita. Non soltanto quell’ Annalena si chiamava come lei, non solo tutti in famiglia dicevano che fosse un genio, non solo aveva salvato migliaia di vite, costruito ospedali e scuole, snobbato il potere, spostato montagne, ma era ovviamente (nel libro si capisce come e  perché) una filosofa dalla personalità fortissima, una specie di Etty Hillesum romagnola. In più la nonna non voleva parlarne, nessuno dei suoi familiari e amici più stretti (per altri motivi che avevano a che fare col carattere schivo ma dominante di Annalena Tonelli) volevano che se ne parlasse, e i divieti per chi scrive sono come fiammiferi accesi.

AMARE DI PIÙ

Chissà da quanto ci stava pensando, Annalena nostra, a questo libro. Scrive che Annalena Tonelli le è entrata dentro da un buco che le hanno fatto nel polmone quando era in ospedale, mentre di notte al buio sgranava come un rosario la collanina che si era tolta e si avventurava in un dialogo alla pari, tra il comico (non l’ho ancora scritto: Annalena fa anche molto ridere) e lo scorbutico, con quel  Dio al quale era impaziente di fare promesse purché la lasciasse in vita. Per poi scrivere: «Non sono diventata migliore, anzi ho scelto l’opzione mitomane che dice a Dio: non è che posso spiegarti proprio tutto». E capire una cosa cruciale per chi scrive, come Annalena nostra, e per chi vive come Annalena Tonelli, come se ogni momento fosse questione di vita o di morte: «Bisogna essere un po’ mitomani per cambiare le cose. Decidere che quello che hai immaginato è reale».

«E se morissi oggi? Se morissi senza avere amato di più?». Annalena nostra durante la convalescenza per la polmonite aveva ricopiato questa frase dai volumi di lettere di Annalena Tonelli ai suoi cari. È da questa frase che è iniziato il viaggio di Annalena alla ricerca di Annalena: «Tutta la sua vita è stata al servizio degli altri, è stata un incendio di umanità e di intelligenza, di comprensione del dolore e dei bisogni di ciascuno. Migliaia di persone, ma una per una…Nessuna mia parola può aggiungere qualcosa al valore della vita di questa donna, ma voglio osservare la realtà dei fatti e mostrare anche la forza del suo pensiero radicale, in cerca di assoluto».

Simone Weil e Etty Hillesum, molto citate in Annalena, sono morte nel 1943, l’anno in cui nacque Annalena Tonelli. C’è un filo che le lega a lei, a Hannah Arendt, e indietro fino a Virginia Woolf, a Emily Dickinson e oltre.

Un filo che Annalena nostra srotola dal suo gomitolo, trascinandoci come gatti dietro a un racconto che a volte sembra un gioco e improvvisamente si apre su un precipizio che ci mozza il respiro, come quando scrive che «non è necessario aver generato figli per sentire desiderio di madre dentro di sé e negli altri. Quello che veramente conta, per la storia che racconto, è essere una donna: avere dentro di sé quella possibilità».