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4 Settembre 2025Nel vortice degli anni Venti, Klaus Mann, quando Berlino danzava al ritmo del jazz e le libertà morali sembravano infinite, un giovane dalle guance ancora lisce alzava i calici nei cabaret notturni della capitale. Era l’enfant terrible di una famiglia illustre, cresciuto nell’agio ma tormentato da una sete di riconoscimento che non riusciva a placare.
La sua penna correva veloce sui fogli, tracciando storie di giovani perduti e anime in frantumi. Scriveva di amori proibiti con una franchezza che faceva sussultare i benpensanti, mentre il padre – quel monumento di letteratura che tutti veneravano – osservava con occhi severi quell’urgenza creativa che giudicava troppo affrettata, troppo impaziente.
“Forse il più dotato”, mormorava il patriarca tra le sue carte, riconoscendo il talento del figlio ma liquidando i suoi sforzi come superficiali. Era questo il peso che schiacciava le spalle del giovane: vivere all’ombra di un gigante, respirare in un’atmosfera rarefatta dove ogni parola veniva misurata, soppesata, confrontata con l’opera immortale del padre.
Quando le camicie brune iniziarono a marciare per le strade di Monaco, fu lui il primo a comprendere. Non si fece ingannare nemmeno per un attimo dalla modernità fasulla di quel “nuovo che avanza”, riconoscendo sotto la superficie patinata la barbarie che si preparava a divorare l’Europa. Fu lui a sussurrare al padre, durante quella tournée di conferenze: “Non tornare. Non ora. Forse mai più.”
L’esilio divenne la sua nuova patria, un limbo sospeso tra lingue diverse e identità frantumata. Dalle coste della Francia meridionale alle metropoli americane, portò con sé il bagaglio di una generazione perduta, quella dei “figli di questo tempo” che aveva visto crollare certezze millenarie nel fango delle trincee.
Nei suoi racconti dell’esilio emergeva una malinconia sottile, quella di chi aveva perso non solo la patria geografica ma anche quella spirituale. I suoi personaggi vagavano per salotti parigini e pensioni svizzere, anime smarrite in un’epoca dove “tutto si incrina, vacilla, collassa”. La disgregazione interiore si rifletteva nella prosa elegante ma venata di nichilismo, in quella mancanza di speranza che colorava ogni pagina.
La sua battaglia contro il regime di Hitler fu feroce e solitaria. Arruolatosi nell’esercito americano, combatté non solo con le armi ma anche con la parola, scrivendo appelli ai soldati tedeschi perché abbandonassero la follia collettiva. Quando tornò nella sua Monaco natale nel 1945, da inviato di guerra, trovò solo macerie fumanti dove un tempo sorgeva la casa della sua infanzia.
Ma la vittoria sui fascisti non placò i suoi demoni interiori. L’oscillazione tra due lingue si rivelò fatale alla sua creatività, quella vena narrativa che in gioventù era stata così prorompente iniziò a inaridirsi. L’America del dopoguerra, con i suoi miti materialistici, non riuscì a offrirgli quella patria spirituale che cercava disperatamente.
In una camera d’albergo sulla Costa Azzurra, circondato dal profumo dei fiori di maggio, scelse il silenzio definitivo. Aveva quarantatré anni e non aveva mai trovato il proprio posto nel mondo. La notizia raggiunse il padre durante una tournée di conferenze. Non interruppe il suo programma.
Così si chiuse la parabola di una vita che aveva attraversato come una meteora il cielo del Novecento, bruciando di luce propria ma destinata a spegnersi troppo presto. L’ombra del gigante era stata troppo lunga, e forse nessun sole sarebbe mai riuscito a dissolverla completamente.