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«L’oggetto artistico è un prodotto umano rivolto a ognuno di noi, qualunque sia la nostra cultura, addirittura a millenni di distanza, esprimendo idee da tempo scomparse o a noi estranee. Per questo richiede di svestire il nostro sguardo cercando quello dell’altro»
Il filosofo e matematico britannico Alfred North Whitehead parla d’impulso a diffondere che non esige necessariamente una determinazione cosciente. Per questo « non siamo in grado di definire dove un corpo comincia e dove la natura esterna finisce». Possiamo anche considerare Hans-Georg Gadamer che parla di emanazione dell’originale nell’immagine, in ciò che per lui non è finalizzato alla riproduzione. L’oggetto artistico può rendere particolarmente manifesta la potenza diffusiva degli esistenti nel loro essere gli uni con gli altri. Più l’opera si avvicina a un incontro di esistenti in essa operanti, divenendo ognuno fisicamente un versante dell’altro, più ciò avviene. Più ciò avviene e l’opera, insiemi di opere saranno vigorosi emergendo, fuori dal mito, dal culto del capolavoro, grazie pure a una miriade di lavori artistici che popolano la storia, ognuno al suo livello, nonché in virtù di un tessuto costituito da una cultura materiale tangibile e intangibile.
Anticipo la ragione per cui penso che questa prospettiva possa essere utile. Jonathan Crary, che insegna Modern Art and Theory alla Columbia University, scrive che « parte della logica culturale del capitalismo richiede che accettiamo come naturale il passare rapidamente della nostra attenzione da una cosa all’altra». È ciò che sperimentiamo direttamente ogni giorno sulla nostra pelle; i flussi culturali lenti, come nella scuola, sono da tempo in pericolo. Che sia un quadro, un’installazione, una poesia, una musica, un oggetto nel contesto di una società primitiva, l’opera con una forza particolare è un prodotto umano rivolto potenzialmente a ognuno di noi, qualunque sia la nostra cultura, il nostro grado di cultura, addirittura a millenni di distanza, esprimendo idee da tempo scomparse o che ci sono estranee. Non saltano per questo le specificità di ogni arte (musica, poesia, pittura), ma qualcosa di comune lega opere, insiemi di opere particolarmente intense. Un’opera intensa ha una forza fisica che può trattenerci, benché non necessariamente al primo sguardo. Occorre però mettersi nei panni dell’altro, evitando di guardare il manufatto avendo negli occhi i bagliori accecanti della nostra cultura o incultura.
Prendiamo ora un esempio, quello di Cézanne. Abbiamo accostamenti di colori, di pennellate per restituire impressioni con cui costruire, ricostruire la montagna Sainte-Victoire. Essa è viva nel quadro attraverso il suo venire al pigmento, il suo farsi l’altro versante di quest’ultimo. Non si tratta solo di una riproduzione vivace. La montagna non cessa di essere operante in seno a un’appartenenza dove anche il pigmento continua a divenire montagna e impressioni, a farsi l’altro loro versante. Prendiamo ora un’idea come quella, ancora di Cézanne, per cui bisogna «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono». Nell’oggetto che ha forza fisica, l’idea è presente, diciamo così, con la sua carne ideale nel suo divenire pigmento. Così, un conto è l’idea formulata dall’artista o dal critico, un conto è l’idea nell’opera, l’idea operante al di là di ogni sua enunciazione. Non che si debba rinunciare a enunciarla, ma è qualcosa di diverso. L’idea formulata è povera rispetto alla ricchezza dell’idea che sentiamo all’opera in quel corpo che è il quadro, all’idea fattasi l’altro versante di pigmento, montagna, impressioni. L’artista chiama realtà disparate a consegnarsi l’un l’altra dando vita a una nuova realtà. Favorisce, grazie alla diffusività degli esseri, l’incontro reciproco delle sue idee, dei suoi ricordi, delle sue esperienze, di ciò con cui, entra via via in contatto, dei materiali utilizzati. Favorisce anche l’incontro reciproco di quegli aspetti generali di cui mi sono occupato all’inizio: saper fare, far vedere e comunicare, funzione… Ciò significa che un’immagine banale è certo fisica, ma non ha l’intensità di un incontro fisico tra esseri come se facessero l’amore. Ora, sotto i nostri occhi. Non come se l’avessero fatto e si riposassero, perché la diffusività degli enti venuti all’incontro continua nell’operare che è l’opera, che è ciò in cui tanti esistenti sono all’opera, sono attivi, restano attivi. Accade ogni volta che ci mettiamo di fronte a un quadro o a una pagaia cerimoniale che hanno intensità per ragioni diverse, sempre che ci mettiamo in condizione di vederla. A tutte le latitudini e in ogni epoca, all’interno di una storia degli oggetti che chiamiamo artistici, bisognerebbe situare incontri fisici tra esseri che pur designati con il termine “arte” (utilissimo e di cui non possiamo fare a meno) lo forzano, premono su di esso per uscirne.
L’appartenersi reciproco non è cercato dall’artista. Il suo chiamare all’incontro è semplicemente un non ostacolarlo. Come? Impossibile rispondere a questa domanda. Bisogna fermarsi. Possiamo al massimo indicare il non ostacolare come ha fatto Klee nella conferenza di Jena del 1924, parlando dell’artista-tronco rispetto alle radici, che sono la conoscenza delle cose della natura e della vita, e al fogliame che è l’opera. Il tronco è mediatore attraverso il quale passa la linfa che affluisce dalle radici. Non rivendica la bellezza del fogliame, giacché essa è esclusivamente passata attraverso di lui. Oltre a Klee, andrebbe citato Roger Caillois quando scrive che i quadri dei pittori sono la varietà umana delle ali delle farfalle: «Una farfalla, che è priva di coscienza e di discernimento, non può crearsi un’ala che sia brutta, perché non ha il potere di porre ostacoli a questo sviluppo di forze che produce naturalmente l’armonia e la bellezza ». Non si tratta per l’artista di giocare a essere inconsapevole. In tal caso sarà questo suo atteggiamento a fare da ostacolo intralciando la diffusività degli esseri con il porre l’artista in primo piano. D’altra parte, la diffusività degli esseri può, nel suo investirlo, spiazzare anche l’ego più tenace sempre che lasci aperto qualche interstizio nella sua volontà di potere.
L’opera con la sua forza particolare è un prodotto umano che ci può trattenere un po’. Non nel senso di attirare su di sé l’attenfacendo, zione. Come? Invitandoci a entrare, ad assaporare l’incontro, la vivacità della vita amorosa che è all’opera nell’opera. Invitandoci a farne parte. È ciò che probabilmente le società arcaiche hanno saputo vivere spontaneamente. Dove l’intensità di un incontro fisico tra esseri è all’opera nell’opera, vi è posto anche per noi. Perché essa è già un noi: montagna, pigmento, idee e tanto altro. È un noi perché è sempre un insieme di opere e mai qualcosa di isolabile. L’attenzione per l’oggetto artistico si accompagna ugualmente a una nuova attenzione per l’esistente esterno che in esso è operante. Perciò l’arte con le sue punte d’intensità ha in sé qualcosa, oggi, di involontariamente anticapitalista. Riprendo le parole di Crary: « Parte della logica culturale del capitalismo richiede che accettiamo come naturale il passare rapidamente della nostra attenzione da una cosa all’altra». Non è quindi per me questione di un nostalgico ritorno all’aura. L’opera, nel suo essere appartenenza reciproca di una molteplicità di componenti, ci invita a concentrarci senza che sappiamo bene perché; e ci spinge a concentrarci su ciò che è comune, sull’essere e farsi insieme materiale che possiamo ignorare, ma da cui non possiamo staccarci perché è ontologico. Comune contro cui una guerra mai dichiarata potrebbe finire per avere la meglio rispetto al nostro sguardo, spegnendolo.
E il critico d’arte? Che cosa può fare rispetto a ciò? Deve affinare il gusto e la capacità di muoversi nell’opera. L’occhio non deve stancarsi di guardare e deve farsi toccante, deve sposare superfici, regolarità, irregolarità, pieni, vuoti, riflessi, spessori. Deve passare e ripassare attraverso l’opera. L’occhio guarda, tocca, ma deve anche ascoltare per vedere. Deve ascoltare il valore di durata di un colore, la sua insistenza, i suoi crescendo e diminuendo. Lo stesso per forme, insiemi di forme, linee. Per le arti visive, per le arti figurative è essenziale.