La piccola e media impresa è la spina dorsale del sistema produttivo italiano: contribuisce in misura determinante alle esportazioni e quindi all’equilibrio dei nostri conti con l’estero, ha raggiunto posizioni di vertice in molti comparti, compresi quelli che comportano tecnologie sofisticate e in continua evoluzione e dunque un impegno costante nella ricerca e sviluppo. Anche se oggi si parla di capitalismo 4.0 o 5.0, si tratta dell’evoluzione di quell’Italia dei distretti che economisti come Giorgio Fuà, Giacomo Becattini e Sebastiano Brusco avevano già individuato negli anni 70.
L’autore ci conduce in questo mondo, basandosi soprattutto su interviste ai principali protagonisti, il che fatalmente porta a mettere in risalto gli aspetti positivi, che pure sono molti, anche se non possono essere in alcun modo considerati esclusivi dell’Italia. Il mondo produttivo di oggi è rappresentato ovunque da nuclei importanti di piccola e media impresa che sono all’avanguardia nei rispettivi Paesi e settori produttivi: basti pensare al Mittelstand tedesco, che fra l’altro è costituito da imprese mediamente più grandi delle nostre.
Il filo comune che lega le interviste è l’obiettivo fondamentale dell’impresa: il profitto è visto come condizione fondamentale di successo e di sopravvivenza, ma non come una variabile da massimizzare sempre e comunque nel breve periodo, come invece succede nel mondo delle grandi imprese, soprattutto se quotate, in particolare nel mondo anglosassone.
Le imprese dei distretti sono tutte a controllo familiare e questo è noto. Ma il libro sottolinea, citando le testimonianze degli imprenditori, che gli orizzonti temporali sono di medio e lungo termine. Ciò consente loro di impostare e realizzare le proprie strategie senza l’assillo dei risultati immediati. Nelle interviste questo punto ritorna come un leit-motiv ed è visto come una determinante fondamentale del successo.
È l’esatto contrario dell’ossessione per i risultati a breve del capitalismo di oggi, che condiziona i manager delle grandi aziende, soprattutto se quotate. È la degenerazione prodotta dalla parola d’ordine lanciata da Milton Friedman secondo cui the business of business is business, che ha come corollario che l’obiettivo dell’impresa è la massimizzazione del profitto anche nel breve periodo. È il trionfo della visione di corto respiro, lo short-ter mism, una delle maledizioni del capitalismo trionfante di oggi.
Non è un caso che studiosi attenti come Colin Mayer o Vittorio Coda, per citare solo coloro che hanno sollevato il problema in tempi non sospetti, abbiano rigorosamente dimostrato le degenerazioni insite nell’interpretazione acritica alla dottrina neo-liberista, cara ai manager che con la scusa dello shareholder value, intascano sontuosi bonus, aggravando fino all’estremo la sperequazione rispetto alla remunerazione media dei lavoratori. Mayer ha addirittura affermato che «l’impresa di oggi sta diventando una creatura che minaccia di distruggerci nella sua ambizione egoistica».
In effetti, la maggioranza delle grandi aziende ritiene che l’obiettivo prioritario sia quello di creare valore per gli azionisti e dunque il prezzo delle azioni (anche nelle sue oscillazioni di breve periodo) rappresenta la misura del successo. Ma è significativo che nelle tante interviste del libro, non una ci presenti un quadro simile. Tutte ci parlano di imprenditori attenti all’importanza di avere una visione di lungo termine e quindi di guardare a portatori di interessi diversi dagli azionisti del momento. I discendenti innanzitutto, per mantenere l’impronta della famiglia fondatrice, ma anche i lavoratori, la società civile, l’ambiente.
L’autore sembra convinto che gli imprenditori di successo dovrebbero far sentire maggiormente la loro voce in politica (di qui il sottotitolo del libro), ma è un tema complesso e che comunque ha dato risultati non univoci. In realtà, il problema fondamentale che emerge implicitamente dall’analisi del volume è la contraddizione, forse insanabile, fra l’attenzione agli interessi di tutti gli stakeholder tipico dell’impresa familiare di successo e l’ossessione per i risultati di breve periodo tipico dei mercati finanziari di oggi. La quotazione in borsa finisce per essere più l’eccezione che la regola per imprese che vogliono crescere ed espandersi internazionalmente. Il fiore all’occhiello della nostra industria è dunque portato a guardare con sospetto la quotazione in borsa come strumento di finanziamento della crescita. Il che determina la contraddizione fondamentale di un settore che da decenni è abbastanza grande da essere il fiore all’occhiello del nostro sistema produttivo, ma non abbastanza da trainare l’intera economia. La colpa non è di una sindrome di Peter Pan che affligge i vertici di quelle imprese, ma di mercati finanziari che non premiano più o non premiano abbastanza la capacità degli imprenditori che sanno guardare lontano.
Roberto Mania
Capitalisti silenziosi.
La rivincita delle imprese familiari
Egea, pagg.136, € 18