Claudia Durastanti
Ci sono molte cose che possono portare una bambina a diventare una piccola donna, accelerando l’aspettativa di una crescita sognante e lenta, in cui avere il tempo necessario per infatuarsi del mondo che la circonda: la povertà, la migrazione costante, la presenza di genitori stralunati che abdicano alle loro funzioni o di fratelli e sorelle minori di cui occuparsi; l’incombere della guerra.
Louisa May Alcott, l’autrice che non voleva scrivere libri sulle ragazze, affrontò molte di queste circostanze: la povertà è stata una condizione che ha lasciato segni profondi sulla sua scrittura e sulla sua concezione della vita. Da bambina si è spostata insieme alla famiglia dominata da un padre trascendentalista, circondata da adulti filosofi con una visione molto precisa delle vicende umane, condividendo quest’educazione saggia ed esigente con le sorelle. Dietro tutto questo, la tensione che portò alla Guerra civile americana. Il bisogno di trovare i soldi, di prendersi cura degli altri e di custodire la propria immaginazione in mezzo ai lavori e agli accudimenti del quotidiano sono stati gli acceleratori che l’hanno catapultata in avanti, dandole uno slancio irruento nel tempo.
Se ripenso al modo in cui mi sono accelerata io, facendo irrompere desideri e paure adulti nella mia condizione di bambina, mi vengono in mente non tanto sfortune e vicissitudini familiari, ma i libri che mi facevano compagnia, i film horror che guardavo neanche troppo di nascosto in barba alle preoccupazioni dei vicini di casa e degli insegnanti, timorosi che quelle letture e visioni potessero apportare forme di corruzione irreparabile nella mia immaginazione. In realtà a quei traumi dell’immaginazione non solo si sopravvive, ma sono proprio gli strappi generati da certi assalti fantastici a permettere la formazione di nuovi strati di pelle, innervati da nervi vivacissimi: se facessi un sondaggio tra donne della mia età che amano leggere, molte mi direbbero che è stata proprio la scena in cui Jo March si taglia i capelli come una missionaria punk a catapultarle direttamente dal loro corpo da bambine a quello irrequieto dell’adolescenza. Anche se Piccole donne non apparteneva affatto alla categoria dei libri sconsigliati durante l’infanzia, al suo interno c’erano indizi destinati ad avere conseguenze decisamente ribelli e cattive. Perché anche i libri, oltre ai fatti impegnativi della vita, hanno la capacità di attrarci in un tempo posteriore, di farci maturare in imprevisti e meravigliosi istanti, trasformando lettrici inavvertite in qualcosa che è già pronto a trovare una nuova forma. Per capire meglio questa sensazione, bisogna pensare alla lettura di Piccole donne come se fosse un time-lapse in cui qualcosa cresce, sboccia, e si spalanca nell’economia della finzione. Poi chi legge torna indietro, riportando l’immagine alla condizione iniziale, ma ha già intravisto una forma futura. Le sorelle March diventano la fotografia di un possibile acceleramento, di qualcosa che potrà appassire o esplodere, per farsi ragazza donna altro (così direbbe Bernardine Evaristo).
Sono tanti i libri che cospirano fra di loro per creare questo fenomeno particolare, e ognuna di noi ha la sua biblioteca di infanzia fatta di cose sconvenienti e strane. Ci ho pensato durante la presentazione di un libro dedicato alla musica indie americana e alla figura di Anna Frank. Parlando con il pubblico, mi sono resa conto che tra i libri che mi avevano turbata di più da piccola, c’erano stati il Diario di Anna Frank e Il diario segreto di Laura Palmer (due libri da chiudere con il lucchetto) ispirato a Twin Peaks, la serie che guardavo come se fosse una funzione liturgica settimanale. La mia dichiarazione aveva strappato qualche risata ed espressione nervosa negli altri, e uno sconcerto innanzitutto personale: perché avevo letto quei libri insieme, passando dall’uno all’altro, ma mi ero dimenticata di averlo fatto. Avevo rimosso il fatto di essermi inavvertitamente formata in quella contorsione di gravità e seduzione, di scoperta del corpo e del mondo violento e cupo fuori, filtrato dalla storia. L’autore del disco di musica indie di cui stavo parlando era rimasto ossessionato dal Diario di Anna Frank a vent’anni inoltrati, dopo averlo trovato in un negozio dell’usato. Aveva iniziato a leggerlo e a incubarlo quando ormai era un adulto. Era una circostanza straniante: di solito le testimonianze di Anna Frank si leggono molto prima, negli anni della formazione. Proprio come si fa con Piccole donne di Louisa May Alcott, che raramente ci accompagna fino al liceo: una volta letto e consumato, Piccole donne diventa un libro paradossale, ubiquo nei ricordi e nel modo in cui immaginiamo la coabitazione tra le ragazze in una famiglia o in una situazione costretta prima della fuoriuscita nel mondo, tanto da cristallizzarsi in uno stereotipo frequentemente citato, ma in fondo abbandonato, messo sullo scaffale e «invisibilizzato» dal bisogno di leggere libri più complessi sull’esperienza femminile. Un libro ingombrante nella memoria, reso sottile dalla vita. In teoria.
In realtà questo discorso non regge molto perché Piccole donne, proprio come altri classici della letteratura di formazione, non viene letto da solo, in un vuoto cosmico in cui non esiste nient’altro, ma è un libro implicato, coinvolto, costantemente corretto e ripensato alla luce di altre storie che ci gravitano attorno in un certo momento: per una ragazza cresciuta negli anni Novanta, è impossibile pensare a Jo March e al suo legame con la sorella Amy senza farsi venire in mente il rapporto tra Brenda Walsh e Kelly Taylor in Beverly Hills 90210. Una bruna, una bionda, e la tendenza a punzecchiarsi e rubarsi i ragazzi a vicenda, prima di riconciliarsi in una solidarietà che assume quasi il sapore di una vendetta. Così come è impossibile assistere alla morte per tumore di Jen Lindley in Dawson’s Creek senza avvertire un brivido di familiarità legato a Beth e alla scarlattina che la uccide in Piccole donne: corpi giovani e interrotti, che riflettono un senso di punizione diverso. Se il personaggio Jen Lindley moriva in quanto ex ragazzaccia atea indifferente alla religione cristiana e borghese, in un arco narrativo orientato alla redenzione, perché Alcott faceva morire proprio Beth, che cattiva non era stata mai? Per suscitare compassione o per assecondare un istinto che adesso, da adulte, può apparire non tanto orientato alla pietà quanto alla parodia, forse lo scherno. Con un piccolo sforzo dell’immaginazione, Alcott può risultare persino sadica, punendo con la morte una vita che già aveva assunto i contorni dell’invisibilità, nonostante fosse ispirata alla sorella più amata. Ecco a cosa serve rileggere Piccole donne da grandi: non tanto per dare una seconda o terza vita alle sue protagoniste, ma per chiedersi chi era davvero Louisa May Alcott mentre lo scriveva sotto commissione, costringendosi a provare interesse per un soggetto che in realtà un po’ l’avviliva, perché il biografico tormenta sempre chi in realtà vorrebbe scrivere di avventura e liquefarsi nell’invenzione.
Leggere in maniera disordinata è uno dei privilegi dell’infanzia: si confondono i personaggi inventati con la vita vera, e le storie vissute diventano automaticamente fiabesche o romanzesche, con una sublime indifferenza verso le categorizzazioni di genere. Da ragazzina, mentre passavo da Anna Frank a Laura Palmer a Jo March senza soluzione di continuità, ero davvero in grado di separare le loro esperienze e la loro brama contraddittoria di vita, senza commettere errori di fantasia? Il rimescolamento spontaneo di quei testi era opinabile dal punto di vista morale, e mi avrebbe reso una lettrice incapace di una seria presa di coscienza sulla letteratura?
Allo stato attuale, credo che sia stata proprio quell’anarchia a farmi innamorare dei libri, mentre la pedagogia su cosa va letto e cosa no, su quando va letto e quando sarebbe meglio non farlo, non fa che avvilirla. Allo stato attuale, sono in grado di capire che ognuna di loro aveva paura e vergogna della propria rabbia, ma faceva di tutto per non perderla. C’era qualcosa di importante, in quella resistenza.
In Aperte lettere. Saggi critici e scritti giornalistici, una raccolta di articoli, commenti e interventi sulla letteratura di Rossana Rossanda, appare un saggio intitolato Meglio leggere Stendhal che Cuore in cui si chiede se non sia l’ora di farla finita con la letteratura per bambini, criticando l’impostazione per cui si scelgono letture confinate a una precisa età evolutiva. C’è una frase che riassume molto bene cosa significa leggere libri non adatti alla propria età. Rivendicando l’appartenenza a una generazione in cui da bambine si leggeva di tutto, compresi I miserabili, Rossanda scrive: «Non sarebbe l’ora di aprire il discorso sulla scuola procedendo non dallo ieri all’oggi, bensì dall’oggi allo ieri, e sempre mettendo nelle mani dei bambini i grandi testi? Non tutto sarà subito chiaro, ma nulla sarà inutile: e là dove il pensiero “aggancia”, sarà una formazione autentica». E conclude: «Non esiste un adolescente che non possa leggere Stendhal invece che Cuore». Un modo come un altro per dire che di fatto non lo sai mai, cosa ti accelera.
Con una ricorsività che mi appare quasi magica, mi sono ricordata cosa leggevo io mentre prendevo in mano Piccole donne per la prima volta: le poesie di Patti Smith raccolte in Seventh Heaven del 1972. Per anni, nelle stanze degli studentati in cui mi ritrovavo ad abitare, ricopiavo alcuni di quei versi sul muro, versi in cui si dichiarava un’attenzione lancinante per donne bellissime pazze e mistiche come Giovanna D’Arco o Marianne Faithfull, ma allo stesso tempo si diceva «Maschio. Il sesso che avrei scelto». Proprio come Jo March, anche Patti Smith avvertiva una tensione inevitabile per l’altro sesso, nella voglia di incarnarlo ancor prima di desiderarlo: possiamo immaginare che per entrambe il sesso non sia arrivato tanto quanto una delusione o un’esperienza minore, ma sicuramente come qualcosa che non rifletteva tutto l’ardore di un’intuizione originaria. Quando non si capiva bene tutto, appunto, ma niente era inutile.
Uno dei saggi più affettuosi dedicati a Piccole donne lo ha scritto proprio Patti Smith nel 2018, rievocando le fughe da ragazzina per leggere il libro sotto un albero, perdendo il sonno la notte, come tante di noi. Un’esperienza piena di immagini: «Ad appena dieci anni ero un’ispida sognatrice a occhi aperti, un maschiaccio sgraziato a cui la vita, negli anni Cinquanta definiti dagli stereotipi di genere, poneva già delle sfide. Indifferente alle attività prestabilite, me ne partivo sulla mia bicicletta azzurra verso un angolo appartato di bosco dove leggevo – e molto spesso rileggevo – i libri che avevo preso in prestito nella biblioteca di quartiere. Vedermi senza un libro in mano era quasi impossibile e sacrificavo ore di sonno e di gioco per buttarmi a capofitto in ciascuno di quei mondi unici. Molti libri splendidi hanno catturato la mia fantasia, ma con Piccole donne accadde qualcosa di straordinario. Mi riconobbi, come in uno specchio».
Per quanto possa suonare strano, chissà se la parte migliore del punk (rinewyorkese incarnata da Patti Smith non deve qualcosa anche a Louisa May Alcott. Sono gli indizi oscuri e ribelli a cui mi riferivo poco fa: c’è qualcosa che emana una luce sinistra in quel libro, proprio sotto la bontà di Jo March e il suo senso della responsabilità. Quando si trincia i capelli per venderli, sfigurando la sua immagine per far fronte alla povertà, anticipa l’aspetto mutilato di tante ragazzine che andranno al CBGB’s quasi cento anni dopo, tra cui Patti Smith che si farà tagliare i capelli in casa da Robert Mapplethorpe, l’amato migliore amico, il suo Laurie. La sua scelta anticipa il tempo tossico e romantico che verrà: il sospetto che in quel sacrificio, in quell’atto di imbruttirsi e di consegnarsi ai bisogni dell’altro, Jo March in realtà si vede libera, si sente artista, gode. Si sente così libera da suscitare in noi una delusione e un rifiuto, perché poi sposa l’uomo imprevisto, un professore più anziano e azzimato, e si ritira quasi a vita privata, trasformando la scrittura in insegnamento e assumendosi la responsabilità di educare i figli degli altri. Questo ripiegamento ricorda un po’ la pausa nella carriera di Patti Smith, quando smise di fare concerti all’apice della sua fama per crescere i figli nei sobborghi e passare tempo con il marito Fred Sonic Smith, prima di riprendere a comporre e esibirsi dopo la sua morte.
In realtà la delusione è importante, forse Louisa May Alcott lo capiva in maniera davvero profonda e pedagogica: solo depotenziando l’epica di un destino che pareva già scritto, e sottraendo un personaggio come Jo March alla vita che per lei avremmo voluto, ha potuto trovare spazio per la libertà. Sottraendola a un percorso prescrittivo su cosa significa essere una brava femminista, una brava scrittrice o una brava ribelle, ci espone allo sconforto dell’alternativa, ammorbidendolo però da un sospetto fondamentale: e cioè che Jo March, in queste scelte più contenute e meno ardite, sia anche felice. Richiamando l’Albert Camus de La morte di Sisifo, dobbiamo immaginarla felice.
Forse Louisa May Alcott, come la protagonista che più le somiglia, aveva bisogno di uno sviluppo normalizzante per un’esistenza incontenibile, e usò Piccole donne e i libri che vennero dopo per imporsi un ordine che non sentiva, in un tentativo di riparazione dopo gli assalti avvenuti nella prima giovinezza. Un fatto biografico, ma anche letterario: portare i propri personaggi in posti in cui non necessariamente volevano andare, fa sì che la domanda generata dalle loro storie resti ancora viva nel tempo. Una specie di mistero condiviso tra l’autrice e la sua opera profonda.
In fondo neanche Patti Smith sposò uno dei suoi Laurie e prese altre strade: il rapporto che ebbe con il fotografo Robert Mapplethorpe e il cantante dei Television Tom Verlaine rimase quello di una ispirata e innamorata amicizia, che trascendeva dai vincoli della coppia e del matrimonio, dandosi forse maggiori possibilità di essere immortale. Nel bellissimo memoriale per Verlaine apparso sul «New Yorker» dopo la sua morte, Smith scrive: «Had I been a boy, I would’ve been him». Sembra quasi di sentire Jo March che parla del vicino di casa Theodore «Laurie» Laurence, anche se lontanissimo da Verlaine in quanto a carisma e concretezza artistica. «Se fossi stata altro sarei stata così»: il riflesso di un’attrazione che non si basa tanto sul possesso quanto sulla somiglianza, e su certi sentimenti paralleli che sono così difficili da descrivere, soprattutto in un libro che parla di giovinezza e tende per sua natura alla collisione e al conflitto, nel tentativo affannato di trovare una soluzione.
Louisa May Alcott una soluzione la trovò: trovò una sistemazione per le ragazze ispirate a lei e alle sue sorelle, scrisse degli adolescenti che forse avrebbe voluto essere, e si destreggiò in un mondo di nuovi diritti e rivoluzioni senza perdere la sua idea di morale, ma qui e là ci ha lasciato tanti indizi su cosa lei stessa avrebbe potuto essere in altre circostanze. La cosa più giusta che possiamo fare, allora, è rileggerla e confonderla, restituendole l’anarchia sorpresa delle nostre letture d’infanzia. La meraviglia della prima volta in cui, accelerate dal mondo e dal mondo risucchiate, abbiamo preso uno slancio in avanti per distruggere tutti i sospetti sulla nostra innocenza, riluccicando di una nuova e fecondissima rabbia.