Il caso di Massimo Luccioli è, esemplarmente, quello di un’intera città d’arte, la Tarquinia che gli ha dato i natali: non solo e non tanto perché a Tarquinia Luccioli è nato, nel 1952, ma perché nei decenni ne ha vissuto interamente il trapasso dalle forme di un’antiquaria che la tradizione pareva aver congelato nei rifacimenti «all’antica» a quelle di una modernità finalmente riconosciuta e praticata.

Luccioli esordisce, come tutti i ceramisti tarquiniesi, nel culto delle tecniche etrusche: il che significava allora nessuna originalità inventiva ma possesso straordinario delle tecniche, dunque muoversi con disinvoltura in ambiti ostici come la cottura a riduzione di ossigeno e la tecnica del bucchero. L’uomo, però, ad altro mirava che a farsi replicante filologicamente adeguato degli antichi. Alla frequentazione delle fornaci prende ad alternare gli studi all’Accademia a Roma, sotto la guida di un maestro della realtà come Alberto Ziveri, il che non gli vale tanto l’acquisizione di modi operativi, ma certamente un pensiero essenziale, ruvido, diretto del fare l’arte: farla, soprattutto, mettendo le mani in pasta, non sottraendosi al corpo a corpo con la terra, cavandone molto più che semplici intenzioni formali.

Va da sé che Luccioli intuisce subito il potenziale straordinario di una vicenda che proprio a Tarquinia si svolge, l’arrivo di Sebastian Matta e la nascita di Etruscu Ludens, vera bottega in cui il grande surrealista si trova fianco a fianco – caso assi raro di «democrazia creativa» – con maestranze, Giovanni Calandrini in testa, che sanno e fanno l’Antico a menadito al punto da viverne con naturalezza la primarietà, il senso dell’atavico e dell’originario, perché, Matta insegna, «non è importante che un uomo faccia pittura moderna, ciò che è veramente importante è che sia un uomo moderno a fare della pittura»: per cui dietro ai ritrovamenti totemici, ai paesaggi innaturalistici, vedi sempre agitarsi lo spirito vivo dell’autore, la sismografia emotiva del suo rapporto con se stesso e con uno sguardo introverso, il fremere degli interrogativi continui che raramente trovano risposte compiute.

Ventenne, Luccioli si ritrova in bottega fianco a fianco con Matta, e per di più sapendo che ben altro si può leggere, del grande cileno, oltre al generico modello: c’è il disegno di Wols e Giacometti, c’è un primato del pittorico che il giovane avverte ben presente anche nel pieno delle imprese plastiche; c’è la sintesi formale brusca, fatta di slogature efficaci, che nasce dal modo «etrusco» di pensarsi vasaio ma sapendo il colore, in un orizzonte oltretutto in cui la Tuscia e il Chihuahua dei Tarahumara s’incontrano.
Luccioli trova così, d’un tratto, tutto ciò che gli serve, e il suo lavoro cresce con rilassatezza felice, secondo tempi che non sono quelli nevrotici dell’artista d’oggi ma figli d’una sapienza profonda. Tarquiniese, ma moderno infine, moderno ben più forse di altri maestri che discendono da lombi altrimenti illustri e celebrati, a Faenza o ad Albisola.

Ora una mostra restituisce appieno, fino al 16 luglio, la fisionomia di Luccioli. Si tiene alla Galleria Aleandri Arte Moderna di Roma e si intitola Massimo Luccioli, Depositi piovani: depositi, perché è nelle pozzanghere dei terreni ferrosi che egli reperisce l’ocra rossa, la prima tra le sue materie prime. Curata da Mario Finazzi con Francesco Paolo Del Re, arricchita da un catalogo che contribuisce non poco alla ricostruzione complessiva della vicenda di Etruscu Ludens (paradossalmente, citata da tutti gli studiosi ma della quale sino a pochi anni fa pressoché nulla si sapeva), secondo una tradizione felice che preserva il ruolo del catalogo d’arte come strumento di studio anziché farne un opuscolo pubblicitario, la mostra offre un ampio stralcio delle produzioni di Luccioli dell’ultimo decennio: sono paesaggi, volti, su su sino alla serie recente delle Geografie immaginali, caratterizzate da un uso della ceramica che mai si concede le oltranze della tridimensione ma sempre tratta le ampie superfici come se fossero pittoriche, accidentate, perfette per accogliere il segnare irrazionale, minuto, proliferante dell’artista.

Caso quanto mai anomalo nel panorama della ceramica italiana contemporanea, Luccioli parla la stessa lingua sorgiva dei suoi antenati ma con lo sguardo rivolto all’oggi, nella scia di precedenti che da Arturo Martini a Lucio Fontana hanno scritto la storia artistica più vera: e alla ceramica affida anche le sue sapienze disegnative, in cui il segnare diventa fattore essenziale, tanto da fare di Luccioli, come si diceva in tempi surrealisti, un «peintre à signes indépendants» vigoroso e sofisticato.

Certo, Tarquinia è la sua anima. L’artista scava forni nella terra, la stessa nelle cui pozzanghere raccoglie l’ocra rossa e la trasforma in cosa sua, in uno studio addossato alla mura cittadine che vive come luogo in cui il naturale non si mimetizza mai in artificio, in cui la vigna e il fico hanno un’importanza che val più di mille sofisticherie intellettuali. Senza questo rapporto ancestrale, senza la ritualità che trasforma il mangiare questi fichi in comunione profonda con la terra, non ci sarebbero questi lavori. Che sono, prima che interessanti o no, prima che belli o no, soprattutto profondamente veri.