Politkovskaya
«Non c’è nulla da commentare. Nulla da chiedere. Non ha senso cercare giustizia: la giustizia è stata rinchiusa in una cella di punizione per aver screditato il potere». Le parole dei figli e dei colleghi di Anna Politkovskaya sono piene di una amarezza gelida e disillusa, in un mondo ribaltato in cui loro e gli assassini della loro madre e collega godono della stessa libertà. Anzi, no: la Novaya Gazeta, giornale per il quale scriveva la giornalista uccisa nel 2006, è stato chiuso dalle autorità russe, e la versione della testata pubblicata in esilio, in Europa, è stata proclamata una “organizzazione indesiderata”, la collaborazione con la quale può costare a un cittadino russo il carcere. L’uomo che è stato condannato per il suo assassinio, Sergey Khadzhikurbanov, invece non solo è uscito dal carcere, ottenendo la grazia e tornando in libertà, ma ha anche ottenuto la promozione a comandante di battaglione, «una carriera da Rambo», commenta una fonte del giornale online russo Baza, che ha rivelato la notizia.
Non è il primo, e sicuramente non è l’ultimo dei criminali e assassini graziati dal Cremlino in cambio dell’arruolamento sul fronte ucraino. Soltanto pochi giorni fa aveva fatto scalpore la notizia della liberazione di Vladislav Kanyus, autore di uno dei femminicidi più efferati degli ultimi anni: aveva ricevuto 17 anni per aver torturato per tre ore la sua ex fidanzata, prima di strangolarla, ma l’arruolamento nel gruppo Wagner gli ha permesso di «espiare la sua colpa con il sangue», come ha spiegato il portavoce della presidenza Dmitry Peskov.
Sono mesi che città e villaggi russi vivono un’impennata di violenza per mano dei criminali liberati dal carcere e mandati a uccidere ucraini: dopo sei mesi, se sopravvivono in trincea, tornano liberi, ottengono la grazia e ricominciano una nuova vita con tutti gli onori militari. Ma il caso di Khadzhikurbanov è speciale, e lui non è un delinquente comune: è stato condannato a 20 anni per aver organizzato uno degli omicidi politici più clamorosi, quello di Anna Politkovskaya. La giornalista aveva denunciato i crimini dei militari russi in Cecenia, ed era stata uccisa a sangue freddo sotto casa sua, a Mosca, nel giorno del compleanno del presidente russo. Stava per consegnare alla redazione un articolo sulle torture e gli abusi compiuti in Cecenia dal suo leader Ramzan Kadyrov. Per molti, la sua morte, il 7 ottobre 2006, ha segnato un punto di non ritorno nell’instaurazione della dittatura putiniana. E in Russia, la grazia viene concessa da una sola persona, dal presidente.
Diciassette anni dopo la morte di Politkovskaya, il suo Paese ha messo a tacere o costretto all’esilio praticamente tutti i giornalisti liberi, mentre invece ha bisogno di “Rambo” per una nuova guerra ancora più sanguinosa. «Mentre il regime condanna a 25 anni di carcere per le idee, grazia gli assassini che servono allo Stato», scrivono Ilya e Vera Politkovskaya, che denunciano una «grazia che non testimonia l’espiazione e il pentimento di un assassino, bensì un atto mostruoso di ingiustizia e abuso, una profanazione della memoria di una persona uccisa per aver fatto il proprio lavoro». Per riuscire a condannare Khadzhikurbanov e i suoi complici, ci sono voluti anni di processi chiusi, cancellati e poi riaperti, di appelli e revisioni, di pressioni dell’opinione pubblica internazionale e di coraggiose inchieste giornalistiche dei colleghi di Politkovskaya, nella consapevolezza che gli uomini sul banco degli imputati erano soltanto gli esecutori materiali di un omicidio che aveva mandanti altolocati rimasti sconosciuti. Per graziarlo, è bastato farlo uscire dalla prigione e inviarlo al fronte, dove si sarebbe mostrato talmente efficiente da venire promosso, e aver firmato, secondo il suo avvocato, un contratto per rimanere a combattere anche da uomo libero.
Una storia che avrebbe potuto uscire dalla penna della stessa Politkovskaya, che già vent’anni fa aveva raccontato la guerra in Cecenia come prova generale di quella che oggi devasta l’Ucraina: stessa crudeltà, stesse torture dei civili e bombardamenti indiscriminati, stessi soldati gettati nel tritacarne con indifferenza da generali senza pietà. Khadzhikurbanov avrebbe dovuto uscire dalla prigione soltanto nel 2034: come ex membro dei corpi speciali, ed ex poliziotto della squadra anti-criminalità organizzata (già licenziato e incarcerato per collusione con bande criminali), era stato assoldato per organizzare la logistica dell’omicidio di Politkovskaya, anche se non ha mai ammesso la sua colpevolezza. Il suo complice ceceno Lom-Ali Gaytukaev è morto in carcere, il killer Rustam Mahmudov sta scontando l’ergastolo, i suoi due fratelli sono stati condannati rispettivamente a 12 e 14 anni. O almeno è quello che si sa ufficialmente: potrebbero anche loro essere in procinto di “espiare con il sangue” e di tornare liberi. Come scrivono i familiari e i colleghi della giornalista uccisa, liberi «di fare quello che sono abituati a fare, umiliando le vittime i loro parenti e amici, i testimoni e i giudici, la legge e lo Stato, talmente debole da dover chiedere loro soccorso e dare loro clemenza».