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Damiano David – Felicità (Festival di Sanremo 2025)
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Siena è quinta per inflazione Prezzi in aumento
23 Febbraio 2025Il ricordo Vent’anni fa moriva il grande poeta fiorentino. Il racconto in presa diretta della mattinata in attesa di un annuncio che non sarebbe mai arrivato. E lui commentò: io non scrivo per i premi
di Renzo Ricchi
Quella mattina del 1997 alle 7.30 ero in casa di Mario di Luzi con la troupe Rai. Si aspettava il verdetto di Stoccolma, tutto il mondo era quasi certo che dopo tante volte finalista, il grande poeta vincesse. Speravo di dare la notizia al Giornale Radio delle otto con una sua intervista in diretta. La telefonata arrivò ma non fu quella che aspettavamo.
Lui era nel suo piccolo studio, meditabondo. Lo raggiunsi, ci guardammo negli occhi, dissi il nome fortunato e aggiunsi: «Mi dispiace». Restammo un po’ in silenzio. Poi Luzi accennò un lieve sorriso e mormorò: «Io non scrivo per i premi». Con quella voce che sembrava sempre venisse da lontano, che emergesse da un lungo pensiero, e aveva un tono un po’ profetico. Come quell’altra volta, dopo la tragedia di Gaza. Stavamo cenando a casa mia, con amici, e lui era tornato da poco da Israele. Uno dei presenti — mi pare Sergio Moravia, docente di Filosofia alla Facoltà di Lettere di Firenze — gli chiese che impressione aveva avuto da quel viaggio. Luzi aveva taciuto un po’, pensieroso, poi mormorò: «Non ho trovato il senso del perdono».
Ma torniamo indietro a quella mattina. Appena arrivati a casa sua — io, l’operatore e il tecnico del suono — ci aveva fatto accomodare in cucina, con quel garbo che gli era proprio, e ci aveva offerto il caffè. Era una casa modesta, all’ultimo piano di via di Bellariva, a due passi dall’Arno. La camera da letto era assediata da libri e quadri; lo studio, minuscolo, era pieno di libri e dattiloscritti sul pavimento. Li leggeva tutti, editi e inediti; e di ciascuno, se gli chiedevi un giudizio, in poche parole diceva l’essenza. Tutto era modesto attorno a lui perché Mario Luzi era un uomo modesto, disponibile a tutti. Accadeva che mentre stavi parlando con lui suonassero alla porta e qualcuno, a volte uno sconosciuto, gli porgesse un testo da leggere. Chiunque poteva accedere a lui, non era formale, ti accoglieva con un sorriso mite, dolce. Di rispetto. Quanto alla sua piccola casa, era circondata da una grande terrazza che gli piaceva molto. Piena di piante, soprattutto era fiero delle sue rose. Da tempo temevo per la sorte di Mario Luzi riguardo al Nobel. Quando, nel 1987, ero stato a Stoccolma per tenere alcune conferenze all’Istituto Italiano di Cultura, avevo incontrato due giornaliste che mi avevano dato la sensazione che il poeta non godesse di simpatie nella capitale svedese. Sembra che in un paio di articoli — apparsi, se ricordo bene, sul Corriere e sulla Stampa — avesse espresso, velatamente, il parere che il nostro governo non sosteneva abbastanza la nostra cultura all’estero il che avrebbe irritato qualche membro della giuria del premio.
Ma Luzi non scriveva «per i premi», la sua poesia andava nel segno di una profonda fede nell’Essere e nell’uomo. Qui, a vent’anni dalla sua scomparsa, il 28 febbraio del 2005, il mio ricordo è per il poeta di «vola alta parola». La sua poesia è stata una luce che ha percorso con fiducia — e qui sta la sua forza — il secolo scorso, pensosa e dirompente attestazione di passione morale e fede nell’uomo. Un continuo sì all’esistenza, di un poeta che si sente umile e orgogliosa molecola nell’opera del mondo, attore pacificato dello spettacolo dell’esistenza: «Oh festa, oh mutamento/per grazia di tutto l’universo»; «Dal mondo al mondo tutto era richiamo,/ reciprocità, preghiera./ E lui era, era». Presente, passato, futuro, sono simultanei nella vertigine dell’Essere che cancella ogni interrogarsi e rende tutto eterno, avvenimento perpetuo, unitario e in divenire: «Domani non c’è/ né ieri, il tempo/ è uno della vita». Il mistero di passato e presente che sempre s’incontrano, sopravvivono a se stessi: «Scende/ la vita, scende incontrastato/ pare, il suo sfacelo,/ a rigenerarsi nella morte/ per il dopo, per il principio». L’essenziale per l’uomo è che non manchi mai strada «(…) al suo lungo/ insaziabile itinerario». L’uomo, nel procedere delle stagioni che scandiscono più la rinascita che il declino perché vanno «verso l’annullamento/ e verso il gran ritorno/ alla testa del mattino/ che tutto riconquista e tutto alluma».
Luzi crede alla «universa fraternità» perché «unico e reciproco è il cammino» di cui si fa parte, «Prendimi, mare aperto, annullami,/ ma restituiscimi alle origini». La sua poesia racconta che l’esistenza non è mai compiuta, che la vita non cessa mai l’offerta di sé. Il cammino umano è incontro della parola con l’altrove, il ruolo del poeta un dialogo con l’essenza della Creazione e l’Assoluto; e l’uomo è continuamente chiamato a un appuntamento con l’immanenza dell’essere e del suo divenire. Negli anni Luzi ha mantenuto quasi lo stesso timbro attraverso una personale elaborazione della lingua, modellata su un sostrato del latino. Un giorno eravamo a Sabaudia, sulla spiaggia (lui presiedeva la giuria del premio di poesia Circe-Sabaudia). Era un tramonto acceso e la testa della Maga sembrava più pensosa che mai. «In tutti i tempi e in tutte le lingue — disse sottovoce — l’uomo ha cercato di esprimere la sua percezione della grandezza del mondo, della bellezza e di noi stessi». Poi accarezzò con lo sguardo la battigia: dei bambini correvano giocando con le onde. Sorrise.
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