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Berlino sotto attacco alla vigilia del voto. L’Afd verso l’exploit
22 Febbraio 2025Nella Storia
di Antonio Carioti
Il cosiddetto «saluto romano», adottato dal fascismo e poi per imitazione dal nazionalso-cialismo tedesco, ha ben poco a che fare con gli usi dei nostri antenati latini, mentre va ricollegato alla corrente culturale neoclassicista di fine ’700. In particolare il linguista Massimo Arcangeli, nel libro Quel braccio alzato (Castelvecchi, 2024), richiama a tal proposito il famoso quadro del pittore francese Jacques-Louis David Il giuramento degli Orazi (1784), nel quale i tre leggendari fratelli tendono il braccio destro in orizzontale verso le spade che porge loro il padre. Invece nelle fonti della letteratura latina e nelle opere degli storici romani non risulta l’uso di quel gesto come saluto. Né lo si riscontra nei monumenti antichi. È piuttosto nel cinema d’inizio ’900, per esempio nel kolossal muto Cabiria (1914), ambientato nel III secolo a.C., che comincia a comparire. E non a caso alla sceneggiatura del film, che ebbe un enorme successo, partecipa Gabriele D’Annunzio. È infatti a Fiume, occupata dal poeta nel 1919 per rivendicarne l’annessione all’Italia, che i protagonisti dell’impresa prendono la consuetudine di salutare il loro comandante con il braccio alzato stringendo in mano il pugnale. E il gesto, come molta altra simbologia dannunziana, si trasmette poi dai legionari fiumani agli squadristi di Mussolini, già prima della marcia su Roma del 1922. Nel 1925, a dittatura ormai instaurata, il «saluto romano» viene imposto dal Duce nelle amministrazioni come emblema di una restaurata grandezza imperiale. Quindi negli anni Trenta il segretario del Partito fascista Achille Starace conduce una campagna intensiva per sostituirlo alla stretta di mano, considerata tra l’altro antiigienica. I nazisti a loro volta lo adottano con qualche variante: non lo chiamano però «saluto romano» e lo fanno discendere ovviamente da improbabili tradizioni degli antichi Germani.