News, press
16 Settembre 2022Pasolini, Meloni e il cuore
16 Settembre 2022Fulvia Caprara
Questa volta, nelle strade di una Parigi spettrale, il commissario Maigret si ritrova a fare i conti con se stesso, a svolgere un’inchiesta che qualcuno giudica superflua, mentre per lui è fondamentale perché lo costringe a guardare dritto dentro il baratro del suo dolore. Da sempre appassionato più all’indagine psicologica che alla dinamica degli avvenimenti, il poliziotto insegue, attraverso la ricerca del colpevole, il modo per risarcire il danno incalcolabile di una giovinezza spezzata. Nel Maigret di Patrice Leconte, Gerard Depardieu porta il carico della sua fisicità strabordante, l’ombra di una malinconia esistenziale, ma, soprattutto, il faccia a faccia con una sofferenza che conosce bene.
Al centro della vicenda, tratta dal romanzo di Georges Simenon Maigret e la giovane morta (appena riproposto da Adelphi) , c’è il caso di una sconosciuta uccisa nel fiore degli anni, una vittima coetanea di quella figlia perduta che Maigret e consorte piangono ancora, anche quando sembra che il tempo abbia curato la loro ferita. In questa informazione, in questa similitudine, Depardieu ha trovato echi del suo dramma più intimo, la scomparsa del figlio Guillaume, morto a 37 anni di polmonite, dopo aver bruciato una vita turbolenta segnata da eccessi e dipendenze. Una perdita che anche Simenon aveva conosciuto, dopo il suicidio della figlia Marie-Jo. In un dialogo del film, ha raccontato Leconte, Depardieu risponde alla frase di un personaggio che dice «quando perdi un figlio, perdi tutto, non c’è più niente»: «Sapevo che, in quella scena, c’era, per Gerard, una risonanza personale molto forte, sul set, nel giorno in cui l’abbiamo girata, eravamo tutti sul punto di piangere».
Anche per queste ragioni il Maigret di Leconte (da ieri nei cinema) segna una tappa cruciale nella lunga serie delle trasposizioni cinematografiche e televisive delle avventure del detective più amato e famoso della letteratura francese, qui colto, come dice il regista «alla sera della vita». Un archetipo con cui si sono misurati in tanti, sfidando l’esempio dell’eroe Jean Gabin che, nel 1958, con Il commissario Maigret di Jean Delannoy, apriva una collezione di successi epocali: «Ormai – dichiarò lo scrittore Claude Muriac – il mito Maigret e il mito Gabin si confondono al punto da non essere più distinguibili»”. Oltre a possedere il phisique du role , Gabin aveva colto al meglio il tono burbero del commissario, il suo stile d’indagine a base di intuito, la capacità di ascolto e la prontezza nel riconoscere le trappole della menzogna. Anni dopo, in Italia, Gino Cervi delineò i tratti di un altro Maigret, perfettamente in grado di rivaleggiare con quello francese. Pacioso, bonario, osservatore attento, disposto ad assolvere e perdonare, ma anche a non dare tregua agli esseri disumani, quelli che uccidono per soldi oppure si accaniscono sugli indifesi. Dietro il fenomeno delle Inchieste del Commissario Maigret , 16 sceneggiati scanditi in 35 puntate che inchiodarono davanti al piccolo schermo 18 milioni di spettatori (merito anche di Andreina Pagnani, nelle vesti della moglie del commissario), c’erano il regista Mario Landi e, con il ruolo di delegato di produzione, lo scrittore Andrea Camilleri. Come dire che i risultati non arrivano per caso.
Al confronto con Cervi, nel 2004, si è sottoposto Sergio Castellitto, protagonista, con Margherita Buy, della fiction diretta da Renato De Maria: «Maigret è uno scrutatore d’anime – aveva detto l’attore -, non cerca solo le colpe e i colpevoli, vuole comprendere le ragioni alla base delle azioni delittuose, è attratto dalla profondità dell’essere umano». L’esperimento, però, non ebbe la risonanza sperata e non ci furono seguiti. La materia Maigret comporta i suoi rischi, bisogna saperli correre, basta pensare che Leconte ha avuto il coraggio di privare il suo protagonista dell’oggetto che lo ha sempre connotato, quella pipa fumante che, all’inizio del film, gli viene proibita dal medico. Resta, sullo schermo, la figura dolente di un Maigret autunnale, avvolto in un cappottone che non basta a nascondere il suo disprezzo per borghesi bugiardi, davanti a cui non toglie nemmeno il cappello: «Vediamo la massa del personaggio – osserva Depardieu -, il suo lato monolitico, ed è questo che lo rende umano. Del film mi ha entusiasmato tutto, le inquadrature, i piani espressionisti, i colori desaturati, vicini al bianco e al nero, l’immobilità dei protagonisti, i dialoghi molto alla Simenon».