C’è un’assenza significativa nei discorsi dei ministri al meeting di Cl a Rimini: la sanità. Non ne parla nessuno. Non figura tra le voci irrinunciabili degli austeri né tra le richieste, pur giuste, di chi vorrebbe invece allargare i cordoni della borsa. Tra i segnali foschi che si sono accumulati in questi giorni è uno dei peggiori, e infatti su questo fronte le opposizioni annunciano battaglia: «Ci opporremo con unghie e denti a ogni taglio e privatizzazione della sanità pubblica universalistica», promette la segretaria del Pd Elly Schlein.

L’altro segnale è l’allarme per il ritorno del patto di stabilità. Il terzo a suonare quella sirena, dopo Giorgetti e Fitto, è il vicepremier Tajani. Spara a palle incatenate: «Bisognava fare come in Cina, dove per aiutare la crescita hanno diminuito il tasso d’interesse. Il contrario di quello che ha fatto la Bce». Dalla Banca centrale al nuovo patto di stabilità il passo è brevissimo: «Il patto deve essere di Stabilità e di Crescita. Servono correttivi perché Paesi come l’Italia non siano aggravati da spese non volute dal governo né dallo Stato. Come le spese per il Pnrr e per la difesa dell’Ucraina». Il vicepremier chiude l’intemerata chiamando direttamente in causa il commissario italiano Gentiloni: «Credo e mi auguro che faccia la sua parte per tutelare l’interesse italiano e di una Unione europea che produce». Cosa aspetta a darsi una mossa?

A RIMINI C’È ANCHE Salvini, che però di patto di stabilità preferisce non impicciarsi. Su Pnrr e legge di bilancio invece qualcosina dice: «Il grosso del Pnrr è a debito e io non mi indebito per gli stadi ma per gli asili sì. La priorità nella legge di bilancio è aumentare stipendi e pensioni». I due vicepremier la pensano all’opposto sulla tassa per gli extraprofitti delle banche, il leghista la vuole confermare in pieno, l’azzurro mira a ridimensionarla escludendo «le banche di prossimità» e possibilmente anche i profitti esteri. Sull’aumento delle pensioni invece concordano.

Per Tajani bisogna avvicinarsi al traguardo di legislatura promesso, le minime a mille euro, passando subito da 600 a 700 euro mensili, trovando le coperture grazie a non meglio precisate «privatizzazioni». Salvini non quantifica e non indica fonti di entrata, a parte il solito Reddito di cittadinanza da togliersi a chi non ne ha diritto, ma sull’aumento ci metterebbe subito la firma.

Le ambizioni di entrambi, per non parlare di esigenze assolute come appunto la sanità, sono destinate a infrangersi contro il muro della penuria di risorse ma anche di quel ritorno del patto di stabilità che è il primo e principale cruccio di tutto il governo. La coperta sarà probabilmente anche più corta del previsto, perché l’obiettivo previsto di una crescita all’1% non appare a portata di mano quest’anno e neppure per il prossimo quello dell’1,5%. Il ricorso a deficit e debito, con le regole del patto in fase di riscrittura, appare al governo come quanto di meno consigliabile: significherebbe consegnare un argomento possente ai guardiani del rigore, la Germania, l’Olanda, i “frugali”. L’Italia invece ha bisogno di vantare merito in materia di rigore e austerità per provare a strappare condizioni meno soffocanti.

SE IL TIMORE FOSSE solo quello ufficialmente dichiarato da Fitto, la mancanza di un accordo e di conseguenza il ritorno in vigore delle «vecchie regole», la preoccupazione sarebbe in realtà limitata. Il vero guaio è che anche con le nuove la musica non cambierà e anzi rischia di peggiorare. Il tetto per il rapporto deficit/Pil resterà comunque fissato al 3%. La proposta della Commissione, rimaneggiata dai falchi di Berlino, prevede il rientro automatico dello 0,5% del deficit ogni anno in caso di sforamento. Per il ministro delle Finanze tedesco Lindner è ancora poco e nei prossimi mesi si sforzerà per irrigidire le regole del rientro. Nelle condizioni in cui si trova l’Italia, tra l’impennata del debito e quella della spesa corrente, sia il vecchio che il nuovo modello rischiano di rivelarsi esiziali.

LA SPERANZA DEL GOVERNO era prolungare la sospensione introdotta con l’esplosione della crisi Covid di un altro anno. Giorgetti, un po’ a mezza bocca, aveva in effetti provato a introdurre il tema, proprio nel suo intervento a Rimini. La rapidità con cui ha dovuto in poche ore ingranare la retromarcia, affidando al Mef il compito di precisare le sue parole di fatto capovolgendole, dice tutto sulla reazione europea. Quella strada è sbarrata e la sola via d’uscita, strettissima, è ottenere che nel deficit non venga contata una lunga serie di spese. Anche solo per sperarci bisogna arrivare al tavolo con alle spalle una manovra più che austera e il nodo eterno della ratifica della riforma del Mes finalmente sciolto.