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di Stefano Bucci
Negli anni dei corpi trionfalmente esibiti, dei sentimenti urlati, del dolore messo in scena, quello di Mario Cresci sembra un universo parallelo. Sia che si tratti delle sue quattrocento fotografie (o forse Cresci preferirebbe parlare delle quattrocento «storie») in bianco e nero al centro della mostra al Maxxi di Roma (Mario Cresci. Un esorcismo del tempo, a cura di Marco Scotini, fino al primo ottobre), sia che si parli della mappa del nostro Sud definita dalle cinquanta immagini (stavolta a colori) di Colorland (fino al 5 ottobre al Monastero di Astino, Bergamo, a cura di Corrado Benigni). Più documento antropologico che ritratto, la fotografia secondo Cresci nega di fatto ogni possibile spettacolarizzazione: i corpi sono nascosti dagli abiti, i sentimenti sono affidati a gesti impercettibili, il dolore è contenuto da sguardi pudichi e sfuggenti. E persino i volti sembrano perdere ogni tratto concreto (nelle sequenze degli Interni e degli Interni mossi del Maxxi) oppure, come nella bambina protagonista di una delle fotografie più emozionanti della mostra al Monastero di Astino (Valle Caudina, Avellino, 1983), spariscono dietro la parrucca rossa di una bambola.
«La storia degli uomini e delle donne che incontravo è stata per me sempre più importante della fotografia che avrei potuto scattare — spiega Mario Cresci a “la Lettura” —. È stato così da subito, da quando nel 1967 sono arrivato a Tricarico, borgo in provincia di Matera, per lavorare al piano regolatore della città: entravo nelle case, iniziavo a parlare con chi ci viveva, mi raccontavano del marito emigrato lontano o del figlio morto tragicamente. Io li ascoltavo e solo alla fine cominciavo a scattare, anche se avrei potuto non farlo, quello che avevo ascoltato già mi bastava». Negli oltre vent’anni trascorsi in Basilicata («Qui ho conosciuto mia moglie, qui sono nati i miei figli») il ligure Mario Cresci (nato a Chiavari il 26 febbraio 1942) è stato capace di fermare il tempo (esorcizzandolo, come recita il titolo della mostra romana) con una sequenza di immagini mai stereotipate. Il percorso del Maxxi si apre con le 95 foto inedite di Matera scattate in quattro anni: «Sono foto in bianco e nero che si incastonano l’una dell’altra, come se si trattasse di un’immagine nell’immagine — spiega il curatore Scotini —. In questi interni lucani se non è possibile assegnare un nome o un’identità ai personaggi che lo abitano è più facile attribuire loro una classe sociale di appartenenza, una condizione di esistenza: quella del mondo popolare del Mezzogiorno».
È il mondo di Carlo Levi (1902-1975), ma soprattutto è il mondo del poeta Rocco Scotellaro (1923-1953), cantore dell’universo contadino della Basilicata, nato proprio a Tricarico: «La madre di Rocco è stata la prima persona che ho fotografato: il figlio era morto ormai da qualche anno, ma il suo dolore era sempre presente». Con lei Cresci definirà un Archivio della memoria (titolo che si ritrova anche in una serie di fotografie scattate qualche anno più tradi, tra il 1978 e il 1979, a Barbarano Romano, in provincia di Viterbo) scandito da foto appese alle pareti, tenute sotto vetro sulle credenze, incollate negli album, raccolte nelle scatole da scarpe. Ritratti di persone lontane (emigrati, defunti, soldati in servizio di leva) a cui Cresci restituisce (con il suo bianco, con il suo nero, ma anche con il suo grigio) una concretezza che scongiura la morte e l’oblio, una nuova «presenza» che si ritrova nei trittici che compongono i Ritratti reali (1972) dove ogni sguardo (dei presenti come degli assenti) fissa con eguale forza l’obbiettivo della macchina fotografica («La prima è stata una Lubitel, una fotocamera russa, l’ho pagata seimila lire»).
La magia delle immagini di Cresci (nel Presepe di Tricarico del 1976, nella serie Martina Franca immaginaria del 1979) sta proprio nell’idea di una fotografia universale, capace di oltrepassare i limiti, quelli dello spazio prima di tutto. D’altra parte, la stessa storia di Mario è segnata da continui «sconfinamenti». Sono sconfinamenti geografici: da Chiavari a Genova (dove studierà) a Venezia dove frequenterà il Corso superiore di design industriale, entrando in contatto con il Gruppo N (un gruppo di artisti d’avanguardia attivi a Padova tra il 1960 e il 1966) fino a Bergamo dove oggi Cresci vive. Ma sono anche sconfinamenti di prospettiva: «Pensavo di fare il design. Fino a quando il nostro professore non ci ha chiesto di rimontare un cubo che aveva volontariamente spezzato proprio perché lo ricostruissimo. Nessuno di noi studenti ci è riuscito mentre in un attimo l’ha fatto il bambino figlio del nostro custode. Così mi sono detto: basta con il design. È stata una di quelle sconfitte che ti aprono nuovi orizzonti».
Il percorso di Mario Cresci (scandito da progetti come Esercitazioni militari, 1968; Immagini e documenti, 1975; Misurazioni, 1979; La terra inquieta, 1980) è quello di un nomade sedentario capace di immergersi totalmente nella comunità e nel territorio, inseguendo la libertà dell’avanguardia di Man Ray (1890-1976): «Quando sono arrivato in Basilicata il 18% dei bambini moriva e Matera non era quella che vediamo oggi, la città che è stata Capitale europea della cultura. Mi affacciavo alla finestra, vedevo i buchi neri dei Sassi e mi chiedevo che fine potrà fare tutto questo». Perché è diventato fotografo? «Perché amo la condivisione e l’arte come la fotografia è prima di tutto condivisione, un processo collettivo dove io ho bisogno degli altri». Il suo modello? «Walker Evans (il grande fotografo statunitense, 1903-1975, ndr), il primo a rompere i generi, il primo a fotografare tutto e tutti». E poi Henri Cartier-Bresson (1908-2004, autore nel 1951 di una serie dedicata ai Sassi di Matera), Mario Giacomelli (1925-2000), Ugo Mulas (1928-1973), che «con le sue Verifiche ha cominciato a fotografare la fotografia», e quel Josef Koudelka (1938) «che veniva a trovarmi a Matera e che voleva sempre dormire nel sacco a pelo, un tipo complicato, ma un grande fotografo che mi ha insegnato quanto sia importante la stampa per fare una bella fotografia».
La serie in mostra al Monastero di Astino si collega invece al Viaggio in Italia, lo storico progetto collettivo ideato da Luigi Ghirri (1943-1992) che nel 1984 ha rivoluzionato il modo di rappresentare il paesaggio, e di cui alcune fotografie scattate da Cresci tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta in Lucania e nelle aree vicine erano entrate a far parte. Una sequenza di immagini che compone una sorta di geografia privata dove prevale un approccio antiretorico al paesaggio: «Fotografie al limite del concettuale — le definisce il curatore Corrado Benigni — . Sono paesaggi di silenzio, come se fossero abitati solo dal tempo». Anche ad Astino il percorso proposto da Cresci è più etno-antropologico che fotografico. E ancora volta è una questione di memoria (quella memoria che al Maxxi di Roma è raccontata dalla maestosa Macchina agricola importata dagli Stati Uniti), una memoria che si è depositata sulle cose, all’interno di una casa, lungo i solchi della terra, in una sfumatura del cielo. E, di nuovo, le fotografie di Cresci («Le ho tirate fuori dalle scatole dove erano finite») sono un invito a cogliere queste sfumature, anche attraverso il pensiero e soprattutto l’immaginazione: «Questo viaggio — spiega ancora Benigni — è molto di un viaggio fotografico tra i luoghi, le abitazioni e le piazze: il suo è contemporaneamente un viaggio nella cultura e nella storia di un popolo antico e un viaggio nella fotografia, in quella lingua della contemporaneità che ha scelto per comunicare e conoscere il mondo».
Per Mario Cresci (orgoglioso di avere conosciuto almeno per un tratto l’esperienza di artisti come Eliseo Mattiacci, Pino Pascali e Jannis Kounellis) non è certo un problema di bianco e nero o di colore… «Quello che conta è quello che tu fotografi, il colore o il bianco e nero non contano. Contano le persone. Contano le storie».
https://www.corriere.it/la-lettura/