
Un’intervista che non tiene insieme i pezzi
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10 Settembre 2025In Italia il sogno delle public companies – società a capitale diffuso, senza un azionista dominante – resta fragile. Le ragioni sono due: un diritto societario che non limita davvero i conflitti d’interesse e una politica che fatica a rispettare le regole del mercato. Il caso Mediobanca, con la recente conquista da parte di Monte dei Paschi di Siena, ne è la dimostrazione.
Perché un’azienda possa vivere come public company serve che chi la governa non tragga vantaggi privati a scapito degli altri azionisti. Ciò richiede regole severe e applicate con rigore sui conflitti d’interesse. In Italia, però, le norme non sono così stringenti: anche chi si trova in conflitto diretto può votare in assemblea o astenersi senza doverlo dichiarare. È accaduto proprio in Mediobanca, dove soci con interessi incrociati in Mps hanno potuto condizionare scelte decisive.
L’altro problema riguarda il ruolo della politica, che non si limita a fissare le regole ma interviene direttamente per spingere o ostacolare operazioni. In questo modo il mercato perde autonomia e la presenza di un azionista forte diventa quasi necessaria per trattare con il potere pubblico e proteggere l’impresa da pressioni arbitrarie. La vicenda Mps–Mediobanca è emblematica: il governo ha lasciato campo libero all’operazione, mandando un segnale chiaro agli investitori. Il risultato è stato un rapido trasferimento del controllo da una platea diffusa a un soggetto dominante. A rendere ancora più fragile la prospettiva di una public company in Italia contribuisce anche la diffidenza del sindacato, che preferisce avere pochi interlocutori piuttosto che confrontarsi con un management costretto a rispondere a centinaia di migliaia di piccoli azionisti. Così politica e sindacato finiscono per convergere su un punto: è più semplice gestire un sistema chiuso, dove il controllo è concentrato e il vertice aziendale non risponde al mercato ma a un quadro ristretto di potere.
Mediobanca, per un periodo, era stata davvero una public company: un unicum in Italia. Oggi non lo è più. Con l’uscita di scena di Alberto Nagel, amministratore delegato dal 2008, si chiude una fase storica e se ne apre un’altra, segnata dall’ingresso della banca senese come nuovo padrone di casa. Il marchio Mediobanca resterà probabilmente in vita, soprattutto per il peso nel private banking, nella consulenza e nella gestione patrimoniale. Ma non avrà più la stessa indipendenza strategica: sarà una divisione interna di Mps, integrata in una logica che risponde a obiettivi più ampi, in cui lo Stato ha avuto un ruolo decisivo.
Non si tratta di rimpiangere il passato, ma di constatare che oggi manca un vero sistema capace di difendere l’azionista diffuso e, con esso, il risparmio. Ai tempi di Enrico Cuccia, Mediobanca svolgeva la funzione di regista silenzioso del capitalismo italiano: teneva insieme famiglie industriali, banche e istituzioni, proteggendo le imprese dalle ingerenze più aggressive. Quel modello non è replicabile né desiderabile, perché si reggeva su relazioni chiuse e su un capitalismo poco trasparente. Ma il vuoto lasciato dalla sua fine non è stato colmato da un meccanismo migliore, in grado di rendere il mercato più equo e più sicuro per chi investe.
La conclusione è chiara: senza regole societarie che impediscano i benefici privati del controllo e senza una politica che rispetti fino in fondo la logica del mercato, le public companies in Italia non hanno lunga vita. L’esperienza di Mediobanca lo conferma: dove il diritto difetta e la politica eccede, l’azionariato diffuso si riduce a un’eccezione temporanea. Alla fine, il controllo torna sempre a concentrarsi nelle mani di pochi, spesso con l’appoggio diretto o indiretto dello Stato. Ed è proprio in questa dinamica che il risparmio – che dovrebbe essere la base del nostro sistema economico – resta privo di un’adeguata protezione.