La premier chiude in conferenza stampa la fase 1, quella della defatigante trattativa su squadra e sottosquadra, e inaugura la fase 2, quella dell’azione reale. Si avvicina così a fornire il primo vero identikit del suo governo anche se manca ancora il tassello fondamentale, crisi ed economia. Arriverà presto: annuncia la convocazione per il 4 novembre del cdm per la Nadef, passo essenziale verso una legge di bilancio da varare in extremis. I soldi sono la sostanza ma il decreto di ieri, parola di Giorgia Meloni, è comunque «importante e a tratti anche simbolico». In effetti.

PRIMA PERÒ L’ELENCO di viceministri, 8, e sottosegretari, 31. L’eterno braccio di ferro con il Cavaliere si è concluso grazie a una telefonata nella notte tra Roma e Arcore. La presidente ha puntato i piedi sul no a Giuseppe Mangialavori, perché citato in un paio di inchieste di ’ndrangheta, ma in compenso, a differenza che sul governo, Berlusconi ha ottenuto parecchio. Ci sono Sisto viceministro alla Giustizia e Valentini con la stessa carica al Mise. Al posto del defenestrato c’è agli Esteri un’altra calabrese, Maria Tripodi. Soprattutto c’è Barachini, giornalista ex conduttore Mediaset, come sottosegretario con delega all’Editoria: una delle caselle sulle quali era stato incandescente lo scontro sin dai giorni della scelta dei ministri. In tutto sono 8 le poltrone azzurre, quante ne chiedeva il signore d’Arcore sin dall’inizio anche se per farcela ha dovuto sacrificare l’ex capogruppo Barelli, che sembrava avere già il viceministero degli Interni in tasca.

COME PREVISTO il partito più forte porta a casa il grosso dei posti, ben 18, e la premier approfitta della cospicua infornata per completare l’inserimento al governo dei suoi fedelissimi. Crosetto e Lollobrigida erano già ministri, Mantovano è un sostegno fondamentale e lo si capisce già dalla frequenza con la quale la presidente, che ancora sconta una comprensibile insicurezza, cercava il suo rassicurante sguardo in conferenza stampa. Adesso può contare anche sul suo alter ego Fazzolari con delega all’Attuazione del programma, di fatto il posto più vicino alla leader, ma anche su Leo vice al Mef, Butti all’Innovazione, Isabella Rauti alla Difesa, Cirielli viceministro agli Esteri. In squadra ci sono anche Bignami, viceministro alle Infrastrutture con il leghista Rixi, tanto per impedire che quel ministero diventi proprietà privata della Lega. Due viceministri anche al Lavoro, Durigon targato Carroccio, e Maria Teresa Bellucci, sorella d’Italia non rieletta. A sorpresa spunta anche Sgarbi, sottosegretario alla Cultura con la leghista Borgonzoni e certo fa un po’ l’effetto «strana coppia». La Lega non si lamenta: oltre ai già citati incassa Molteni agli Interni, Bitonci al Mise e Vannia Gava viceministra all’Energia. Insomma tutti più o meno soddisfatti, tranne la Cenerentola centrista che, già tagliata fuori dal cdm, deve accontentarsi di un posticino.

IL DECRETO OMNIBUS offre un primo assaggio di come intenda governare la squadra di cui sopra e Meloni rimarca a volontà: «Fiera del provvedimento sul carcere ostativo: la misura più temuta e contrastata dai mafiosi». In realtà era un passo quasi obbligato: l’intervento della Consulta l’8 novembre sarebbe stato esiziale. Non che il passo non sia «delicato e complicato», come lo definiscono al Quirinale dove aspettano di vedere il testo prima di sbottonare anche solo mezza asola. Stessa effettiva necessità e urgenza per il rientro dei medici non vaccinati con due mesi di anticipo sulla data prevista: con quattromila medici in meno e la situazione degli ospedali di è disperata. Obbligata infine la scelta di rinviare l’entrata in vigore della riforma Cartabia. «Non potevamo restare insensibili al grido di dolore di tutti i procuratori generali», si infervora il guardasigilli Nordio ed è davvero così. Comunque, conferma la premier, «i tempi fissati dal Pnrr arrivano al 31 dicembre e saranno rispettati».

A CONTI FATTI la sola vera scelta è la crociata contro i Rave, trasformandoli in emergenza nazionale perché «lo Stato non può mostrarsi inerme di fronte all’illegalità». Va detto che come primo nemico, a cui comminare pene sproporzionate che arrivano a sei anni, il governo non si è scelto precisamente il più pericoloso, forte e temibile. «Predappio è politicamente distante da me in modo molto significativo», ha sottolineato la premier e ha ragione. Però non è che per essere autoritari e pericolosi sia necessario andare a Predappio.