
Tassare i ricchi, la destra osteggia una manovra etica
20 Novembre 2025
Tom Petty – Free Fallin’
20 Novembre 2025La scalata La premier sale al Quirinale per chiarire a Mattarella che Fdi non intendeva attaccarlo. Ma di fatto apre la partita per il 2029
Giorgia Meloni non può permettersi di entrare in rotta di collisione con Mattarella e lo sa. Dunque alza il telefono, chiede di essere ricevuta al Colle e ripete al capo dello Stato che mai e poi mai Fdi ha avuto intenzione di attaccare lui.
Anzi, le raffiche contro il consigliere Francesco Saverio Garofani miravano proprio a «circoscrivere la vicenda al suo ambito reale anche a tutela del Quirinale», come reciterà, a colloquio concluso, la nota di palazzo Chigi. Il tono della premier non è contrito ma neppure aggressivo. La salita al Colle è quasi un atto di sottomissione nei confronti della massima istituzione, che Meloni non può però far apparire come una resa. Perché sa anche di non potersi prosternare, di dovesi mostrare pronta a sfidare su un piano di assoluta parità il capo dello Stato. In più è furibonda per le sprezzanti parole usate dal Colle per derubricare lo scandalo Garofani a «ennesimo attacco al Presidente costruito sconfinando nel ridicolo». E la presidente del consiglio è ancora convinta di dover lanciare un avvertimento minaccioso a quanti, almeno nei suoi incubi, stanno cospirando nelle sale del Quirinale per sbarrarle la strada verso una nuova vittoria elettorale e verso un’eventuale ascesa al Colle dopo Mattarella.
DUNQUE, PUR SAPENDO che il presidente considera gli attacchi contro Garofani rivolti in realtà alla sua persona e alla sua autorevolezza, un tentativo di mettere in dubbio la sua imparzialità, Meloni insiste nel denunciare le responsabilità tutte e solo del consigliere loquace. Di persona lo fa a bassa voce però, dopo il colloquio, palazzo Chigi licenzia un comunicato tanto duro da destare dubbi persino tra i più stretti collaboratori della premier. Un testo che lei stessa non avrebbe letto nella versione definitiva avendo però ispirato in tutto e per tutto il tono di fondo. L’approccio è opposto a quello adoperato nello studio di Mattarella: tanto bellicose le parole scritte quanto concilianti erano state quelle pronunciate.
È una piena rivendicazione delle ottime ragioni dei suoi ufficiali, Galeazzo Bignami in testa. È anzi un nuovo atto d’accusa contro il consigliere per le sue «parole istituzionalmente e politicamente inopportune pronunciate in un contesto pubblico». Dunque era lui, Garofani, a «dover chiarire per chiudere immediatamente la questione».
NON È QUELLO CHE si aspettava il Quirinale dopo l’incontro pacificatore e il solito Bignami rincara. Garofani ha ammesso di aver pronunciato quelle parole, sia pur solo in una «chiacchierata amichevole» e certo non in una riunione di congiurati. Il capogruppo FdI impugna l’ammissione come una clava: «Quella persona ha confermato i contenuti. Ci ha molto sorpreso la reazione estremamente scomposta del Pd».
La tensione torna a impennarsi. La pace appena siglata col Colle vacilla. I capigruppo di FdI, Lucio Malan e lo stesso Bignami, devono emettere un comunicato congiunto per assicurare che FdI «ritiene la questione chiusa e non reputa di aggiungere altro». Fine del fuoco ad alzo zero sul consigliere di Mattarella e fine delle ostilità. Almeno sulla carta.
Nel concreto le cose stanno diversamente e non solo perché l’offesa ai danni del presidente lascerà ferite aperte nel rapporto tra il capo dello Stato e quello del governo. La vicenda sarà pure estemporanea e casuale, anche se come le parole pronunciate in un ristorante da Garofani siano arrivate a numerose testate qualche interrogativo irrisolto e poco tranquillizzante lo impone. Ma illumina una realtà che di casuale non ha nulla.
Giorgia Meloni è più paziente di quanto non appaia a prima vista. Sa di non poter conquistare tutte le postazioni istituzionali d’impeto, si muove con pragmatico realismo. Ma gli obiettivi finali non li ha mai rimessi in forse e tra quegli obiettivi primeggia l’occupazione del Quirinale. Che ci voglia andare lei di persona non è detto: di qui al 2029 le variabili sono troppe e tra queste figura in postazione eminente la sorte del premierato, sempre che resti tale e non venga riconvertito in presidenzialismo. Quel che è già certo però, è che, se vincerà le prossime elezioni e disporrà dei voti necessari, Giorgia Meloni non ha alcuna intenzione di lasciare la presidenza della Repubblica a una figura di garanzia o al di sopra delle parti. Quel posto deve andare a lei o a un fedelissimo.
MA IL 2029 È LONTANO: s’impone dunque, se non la conquista, almeno il ridimensionamento della presidenza della Repubblica e di chi quella istituzione incarna. A questo serviva l’attacco degli ultimi giorni.





