«L’algoritmo è un’esattezza fantastica che non può sostituire il vivente e ancora meno l’umano». Da anni l’ambito delle ricerche di Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino, si misura con l’intelligenza artificiale e le sue ripercussioni. Antropologia e sociologia, cui si aggiunge l’interfaccia tra epistemologia e biologia, sono solo alcuni dei temi che frequenta e su cui ha pubblicato diversi saggi, come per esempio Il cervello aumentato, l’uomo diminuito (2016) ma anche Funzionare o esistere? (2019) e La tirannia dell’algoritmo (2020). Nato a Buenos Aires, trasferitosi a Parigi dopo quattro anni trascorsi nelle carceri argentine per aver militato nelle fila dell’Esercito Rivoluzionario del Popolo, la sua lettura del presente passa per alcuni libri cruciali tra i quali basterebbe nominare Il mito dell’individuo (2002), L’epoca delle passioni tristi (con Gérard Schmit, 2004) e Elogio del conflitto (con Angélique del Rey, 2007); preziosi anche i suoi contributi più recenti: con il collettivo Malgré Tout, di cui fa ancora attivamente parte dagli anni Ottanta, ha pubblicato in aprile del 2020 Piccolo manifesto in tempi di pandemia e nel 2021 La responsabilità della rivolta (con Andrea Colamedici).
Oggi a Pinerolo (ore 21), sarà ospite del festival «Pensieri in piazza».

Il titolo dell’incontro a cui parteciperà oggi, con Derrick de Kerckhove e Marco Revelli, è «Dal biologico al digitale: traducibilità del vivente?». Lavora da molti anni su questi temi.

Sono stato invitato al festival per parlare di traduzione, ciò che rispondo è che tra il mentale e il neurale, così come tra il vivente e l’algoritmo, non c’è traduzione possibile. Lo sforzo è quello di lottare contro il riduzionismo che va a dissolvere ogni particolarità dell’umano e che fa sì che noi dobbiamo essere funzionanti, performanti a ogni costo, questo l’obiettivo.

Nel suo «La singolarità del vivente» (Jaka book, 2021, edito in Francia nel 2017) lei scrive: «i corpi esistono. Questo potrebbe essere l’assioma centrale della ricerca». Ed è ciò, aggiunge, con cui l’ibridazione deve fare i conti.

Bisogna stabilire cosa sia questa alterità. La doxa dominante oggi è che c’è una continuità di natura tra il vivente e la macchina digitale. Dire che si deve andare verso una ibridazione è un progetto. Perché ci sia ibridazione dobbiamo prima accettare che esistano due entità diverse e per il momento non è così.

Lei dice che, per superare la crisi di senso, la società postmoderna vorrebbe sbarazzarsi del corpo. Ma che cos’è il senso e cosa ne sa la stupidità dell’algoritmo che nella sua perfezione immagina di potersi appropriare della complessità del vivente?

La specificità dell’essere vivente è che l’ambiente, il contesto «fa senso» (è piacevole, pericoloso, attraente, pauroso e così via); ciò avviene grazie a un tipo di organizzazione in cui c’è un dentro e un fuori (propria esclusivamente del vivente). Se invertiamo i termini pensando che l’algoritmo sia troppo esatto, preciso, potremmo concludere come non sia capace di modellizzare la stupidità umana. In realtà, quest’ultima, non è un errore. È piuttosto la pulsione, il desiderio, la passione, il sogno, l’immaginario. Tutto ciò non è schiacciabile, eliminabile. Chi difende il mondo algoritmico prova ad andare al di là, non solo della cosiddetta stupidità umana ma anche animale; ma i non umani non seguono una logica lineare dell’efficacia, percorrono anche loro una complessità. E quindi si «sbagliano».

Il progetto reazionario è quello di credere a una razionalità assoluta, totale in cui esiste un chimerico multiverso secondo cui i corpi devono piegarsi all’inumano, all’inanimato dell’algoritmo. E invece i corpi si oppongono a una tale realizzazione: sono molesti, perché sono presenti, immaginano un senso possibile.

In tale direzione, il transumanesimo come anche il postumano, sembrano assumere i tratti di un incantamento, affascinante da un punto di vista teorico e che tuttavia determina la sparizione del vivente?

Per questo parlo di «trasduzione» e non di traduzione, un concetto preso in prestito dalla biologia. In estrema sintesi, si tratta di un meccanismo per cui tra due sistemi, divisi per esempio da una membrana, uno stimola l’altro. Così se nel sistema neuronale accade una certa cosa ciò va a influenzare la mente, l’aspetto psicologico e viceversa ma non nei termini di una traduzione. Semplicemente funzionando, un sistema perturba l’altro e influisce sul suo funzionamento, senza però trasmettere un messaggio codificato da tradurre.
Come non c’è un rapporto di traduzione così non c’è un rapporto intenzionale (per l’appunto, lo stimolo viene emesso da un sistema che sta semplicemente seguendo il proprio funzionamento, non decidendo di inviare un messaggio). Si potrebbe spiegare la trasduzione anche attraverso un apologo taoista per cui, quando un bastone colpisce il fondo di una barca (lo stimolo), i pesci si immergono in profondità e gli uccelli spiccano il volo (ciascuno segue il proprio funzionamento, senza che venga «tradotto» alcun «messaggio», che sarebbe il colpo del bastone). È un punto importante che va a far vacillare ogni forma di riduzionismo.

Che significato ha la parola «mamotreto» e come è composta la proposta teorica che lei descrivi come «nuovo modello organico in grado di evocare il funzionamento del vivente inteso come insieme integrato e non riducibile agli elementi e ai processi da cui è composto»?

Ho lavorato oltre dieci anni con biologi molecolari con cui trovare un modello accettabile per la comunità scientifica sulla singolarità del vivente. E nel momento di nominarlo ho pensato a «mamotreto», un termine che in Argentina è uno scherzo, è un caos. Mescolare la serietà del progetto con la comicità di un nome è per me possibile, non toglie niente al rigore della ricerca.

Il modello che segue tutte le tesi e ipotesi della ricerca ha al centro, e come primo piano, il «campo biologico» – nel senso che la vita è veramente un fenomeno di campo, di contesto. Noi partecipiamo della vita, tutti gli esseri viventi lo fanno. Significa che la separazione tra l’umano e gli altri viventi non è fondante come invece lo è partecipare a questo campo biologico che ci dà forme diverse. In questo insieme emergono tipi di funzionamento che chiamo «misti», non sono organismi ma si comportano come tali – la lingua, la macroeconomia, le matematiche, l’urbanistica. Sono all’apparenza autonomi ma dipendono dal biologico. È il secondo piano. Nel terzo invece ci sono gli elementi separati, «discretizzati», che hanno un funzionamento chimico-fisico – non c’è un’organizzazione, non sono viventi, non sono misti.

Di questi tre piani cerco di spiegare il rapporto dando la priorità al vivente, sostenendo che l’esistenza è condizionata da esso. È una posizione fenomenologica per cui non c’è una ricerca dell’origine, metafisica ma si parte dalla vita per capire il mondo. Sotto la vita non possiamo capire niente.

La partecipazione di cui parla può riferirsi anche al discorso che fa sui legami? Gli esseri umani ne sono costituiti, «non siamo il centro di questi legami, bensì segmenti di essi».

Da un punto di vista filosofico non esistono individui separati, questa illusione è una malattia del pensiero che va a produrre chimere che non sono compatibili con il vivente. L’ultima delle chimere è il mondo algoritmico ma, se andiamo indietro nella storia, anche quella di Cartesio lo era quando ci immaginava disgiunti dalla natura. Sono fantasie occidentali, basate su un colonialismo che insieme ai continenti ha creduto di agire sui corpi partendo dall’assunto che il colonizzatore è l’uomo maschio bianco. Questa separazione, che in effetti è rappresentazione e sistema frattale del colonialismo patriarcale, non è stato più possibile pensarla anzitutto come paradigma biologico.

La sfida che incontriamo è quella di continuare a non cedere al binarismo cartesiano. Dobbiamo trovare un monismo scientifico che spiega una differenza reale e irriducibile dentro una unità materiale unica.

Tra le illusioni del riduzionismo c’è che tutto è informazione. Dove troviamo spazio alla comprensione e al sentire?

La comprensione ha bisogno di corpi che sperimentano qualunque cosa e la capiscono. A volte accade senza parole, senza informazione necessaria. Questo perché l’informazione arriva direttamente alla coscienza, non provoca l’atto ma può inibirlo. Oggi siamo in questa deriva da platonismo reazionario.

Ciò che fa attrito è anche la temporalità?

Il vivente ha dei tempi, di interazione, circolari e sono processi che talvolta attraversano le dimensioni di presente e passato. In un ciclo non c’è un prima o un dopo, è tutto integrato. Questo tempo lineare che intimiamo, soprattutto ai giovani, di non perdere è quello del capitale, quantitativo.