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MILANO — Di solito va così: «Nel gruppo ci sono sempre i più aggressivi, quelli che danno la linea. “Andiamo a fare casino, andiamo a rubare, cerchiamo le donne…”. E gli altri, scemi, dietro. Sul treno è successo questo, purtroppo. Ma per tre violenti, ce ne erano sicuramente venti-trenta solo scemi, che adesso sono complici di un reato gravissimo». Così parla Aladin, esperto didelinquenti minorenni in quanto ex delinquente minorenne. Egiziano, 19 anni, in «messa alla prova» nella comunità Kairos — «facevo rapine, quando ero piccolo» — conosce le dinamiche dall’interno «perché così succede anche nei furti. Vai in gruppo, mica da solo. Il gruppo ti dà forza… Poi cominci con le rapine». E sul fatto specifico, che conosce via Instagram, «la cosa mi fa molto schifo. A me in famiglia hanno insegnato che le donne si rispettano. Erano “africani”? Mi vergogno per loro».
Aladin è di Baggio, periferia di Milano come il Gallaratese, e San Siro, Giambellino, Molise-Calvairate, Corvetto. Alta densità di ragazzi extracomunitari, i cosiddetti seconda generazione, e anche di prima, perché gli arrivi continuano e riempiono quartieri a reddito infimo, case popolari spesso orrende, malsane, che traboccano un puro odio che poi diventa concreto nei raid dei più giovani, le scorribande predatorie in corso Como — le rapine di orologi, magliette, scarpe firmate —, e le violenze sessuali in piazza Duomo, la notte di Capodanno, e il raduno trap sul lago di Garda, con 5 ragazze ostaggio di una trentina di maghrebini, probabilmente, di sicuro la giornata era all’insegna del «siamo africani, e cattivi» («Questa è Africa, siamo venuti a conquistare Peschiera», così si sente gridare nei video poi finiti online). Salvate dal peggio da un ignoto al momento «ragazzo di colore», che le ha fatte scendere a Desenzano, scansando i violenti.
Non sappiamo ancora chi — tra aggressori e salvatori — ma sappiamo da dove vengono questi ragazzi, e sono questi posti «che non sono ancora banlieue ma lo stanno diventando, e te lo dice uno di Quarto Oggiaro come me». Dario Anzani è il coordinatore del Centro diurno Giambellino, struttura storica gestita da cooperativa sociale eroica, e finanziato da Comune e Save the Children. Un posto dove si rischia parecchio, ad entrarci, per via delle pallonate di un gruppo eterogeneo di età e colore di pelle, tenuto a bada da un arbitro che avrà 18 anni, una partita di calcio tra alberi e panchine, un via vai di mamme con il velo o senza, e rispettivi neonati, e dentro c’è una festa per la fine della scuola, dove si preparano polpette e qualcosa sta bruciando.
Un 150 ragazzi quasi tutti non italiani passano i loro pomeriggi qua, perché c’è il doposcuola per tutti, e il centro famiglie, e molte altre cose ancora che un altro quartiere critico e più grande come San Siro, ad esempio, non ha. «Questi quartieri sono pentole a pressione. Ci sono scuole, come la elementare Narcisi, con il 68 per cento di alunni stranieri, e la media a Milano è il 27 per cento. E ci sono ragazzi che hanno trascorso il lockdown con tre fratelli in 27 metri quadri di casa. Per me l’unica sorpresa è che non facciano molto di peggio», e stiamo parlando dell’aggressione sul treno. «Ne abbiamo parlato, certo», dice Anzani. Cosa dicono i ragazzi? Schifo.
«Il pericolo è il gruppo, la massa. Poi c’è il pregiudizio. Verso gli arabi, certo. Gli “africani” vengono considerati delinquenti a priori», e questo Aba, che si chiama per lungo Abanoub Daoud Mosaad Beh Abadir, cita il caso del fratello minore, «che ha la pelle più scura della mia e una pettinatura da tamarro, così la polizia lo ferma almeno tre volte la settimana». Il padre «sempre preoccupato», o forse anche rassegnato all’idea che, in quanto egiziani, questa sia la vita che gli tocca. «Però, capisci, in questo quartiere ci sono due scuole medie. La Anemoni, una scuola ghetto dove sono quasi tutti stranieri. La Carlo Porta, dove la maggioranza è italiana ». È giusto, si domanda il giovane (21 anni) che è uno dei pochissimi, al Giambellino, a «essere uscito dalla scuola ghetto», e attualmente frequentante il secondo anno di Ingegneria edile e Architettura a Pavia?
E mentre si parla con Aba, schivando le pallonate, proprio a Pavia Simone Feder sta parlando con una ragazzina di 15 anni, «italiana, una che ha tutto e non ha voglia di fareniente». Feder è coordinatore dell’area Dipendenze della Casa del Giovane, e fino al 2019 giudice onorario al tribunale dei minori di Milano. Sa che «i ragazzi che commettono reati sono italiani e stranieri, senza distinzioni di carta di identità e estrazione sociale. I genitori? Delegano allo specialista, non si prendono responsabilità educative. Gli arabi? Come tutti gli altri. In più, hanno una totale diffidenza ad accettare un aiuto. E vale per tutti, una totale inconsapevolezza dei reati che compiono». Al massimo dicono «ho fatto una cazzata». Di chi è la colpa, Feder. «Delle famiglie, che non hanno messo i paletti al momento giusto».
È così? È così, lo dice anche don Claudio Burgio, uno che se ne intende. Cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano. Vive nella comunità Kairos — quella di Aladin — «insieme a 50 ragazzi dai 14 ai vent’anni. E chi sono? Italiani, anche di buona famiglia. Più italiani che stranieri. Ci sono maghrebini, certo». Ma «non ne farei un problema etnico, o di seconda generazione. È un problema di cultura», anzi di non-cultura, «dove non c’è educazione di genere, e non c’è una educazione sentimentale. Sono ragazzi anaffettivi, che talvolta, ecco, hanno seguito dei corsi di educazione sessuale a scuola. E a casa, lasciamo perdere. Dal punto di vista emotivo, sono tutti analfabeti». Al punto di non rendersi conto di commettere una violenza? «Non sentono le emozioni degli altri, e questo poi può degenerare». Don Claudio non teme certo l’accusa di buonismo, il prete buono che difende gli ultimi eccetera. E nemmeno Anzani, che prete non è e si arrabatta con i quattro soldi che ha: «Una volta c’erano i terroni, che tenevano le donne chiuse in casa, e usavano i coltelli. Ne siamo venuti a capo, no? Ma una volta c’era lo Stato, oggi io non lo vedo più». Vede però «la ghettizzazione culturale, e ragazzi di 15 anni nati a Milano, che non sanno parlare italiano”. Hai voglia, a parlare di integrazione, allora.
Intanto, davanti al kebab Giambellino, due ragazzini in bici accettano di parlare dei fatti di Peschiera. Eravate lì? Uno dice «no, mio padre mi ha detto di non andare». L’altro esita. C’eri? «Ma non ho visto niente. C’era quel messaggio su Tik-Tok, e siamo andati».