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10 Ottobre 2025Lo stile Con lui il lettore entra in uno stato di trance. L’analisi di Mauro Covacich
è davvero il dio della frase
di Mauro Covacich
Quando ho avuto la fortuna di incontrarlo, al festival romano di Libri Come nel 2022, in sala eravamo una trentina di persone. Un uomo partorito da un sogno, alto, magro, i capelli bianchi che spiovevano da sotto un cappello a larghe tese, gli occhi di ghiaccio ingentiliti da un sorriso pieno di riconoscenza verso quel gruppo sparuto di lettori, oggi senz’altro fieri della propria scelta. Mi ascoltava paziente balbettare le mie domande mentre con una parte del cervello pensavo: quindi esiste, Krasznahorkai esiste davvero.
Nel 2000 ero ospite in Ungheria e ancora si parlava di un libro uscito nel 1985 e diventato mitico in quel Paese, s’intitolava Satantango. In Italia sarebbe stato pubblicato appena nel 2016, sulla scia del Man Booker International Prize, assegnatogli l’anno prima. Da questo romanzo Béla Tarr aveva tratto un film di sette ore con il quale provava a restituirne la grandezza puntando sulla vastità (e almeno in parte vincendo). In quello sterminato lungometraggio qualcosa dell’intransigenza formale di Krasznahorkai, insieme al suo mistero, aveva raggiunto lo spettatore cinefilo dei festival europei, ma bisognava aspettare ancora un paio di decenni perché l’Occidente si accorgesse di lui.
Nel frattempo ovviamente il nuovo vincitore del Nobel non ha mai smesso di scrivere, ma lo ha fatto vivendo in penombra, se non proprio nascosto, alimentando l’aura enigmatica che le opere stesse gettavano sulla sua figura di autore. Si diceva che fosse un giramondo, c’era chi sosteneva di averlo visto a New York in casa di Allen Ginsberg, chi lo ricordava ospite di qualche università in Cina, c’era chi assicurava che fosse tornato a Gyula, la cittadina della Puszta dov’è nato. Credo quindi sia facile capire la mia gioia, quando, in quell’incontro romano, Krasznahorkai si è presentato in carne ed ossa scrollandosi dalle spalle la sua leggenda.
László Krasznahorkai è il dio della frase, un dio sperimentatore che fa impazzire la frase e ne osserva le conseguenze. «Come fa?» gli ho chiesto in quell’occasione. «Non lo so proprio», mi ha risposto. E in effetti, a pensarci bene, il controllo anche magistrale sulla scrittura non ha nulla a che vedere con l’esito a cui essa conduce, riguardando al contrario la particolare capacità di padroneggiarla abbandonandovisi. Ecco, forse più che uno sperimentatore, il dio della frase è un rabdomante: si abbandona al rametto che maneggia avanzando a occhi chiusi. Krasznahorkai procede nei suoi periodi smisurati ipnotizzando il lettore a suon di subordinate che girano e ancora girano fino a inghiottirlo nelle loro spire. Lunghi monologhi e un uso sapiente del discorso indiretto libero, ovvero un’alternanza di voci che, inaspettatamente, finiscono per diventare quella di chi legge.
Così il lettore entra in uno stato di trance dove incontra lande desolate piene di fango e pioggia, su cui vagano contadini svitati, ubriaconi, loschi figuri, capi villaggio di ritorno da missioni presso fantomatici uffici cittadini. Ma nei romanzi di Krasznahorkai ci sono anche professori esperti di muschi, carrozzoni con dentro carcasse di balena da esporre nella piazze di paese, ci sono bambine che portano per mesi sulla spalla il proprio gatto morto o personaggi asserragliati che guardano dallo spioncino il mutare del mondo. E sempre, ovunque, in ogni libro, interminabili attese di vari Godot che talvolta, però, arrivano e sconquassano il sistema nervoso della comunità bislacca da cui si sono allontanati.
Il dio della frase è anche lievemente sadico e può vantare una certa parentela con Kafka, Gombrowicz, Bernhard e, appunto, Beckett. Ma il suo sadismo è un dono senza pari per coloro che non traggono alcun piacere dalla lettura se il libro non gli fa almeno un po’ male.