Il Punto 11/10/2022
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13 Ottobre 2022Il caso
di Gian Antonio Stella
Il terremoto e le parole del giudice civile: potevano uscire di casa
Una coltellata. Così l’han vissuta, i parenti delle vittime del terremoto dell’Aquila, la sentenza che, con agghiacciante gergo buro-giudiziario, rovescia sui poveretti uccisi dal crollo di uno dei palazzi tirati su con oscena faciloneria, una parte delle colpe della loro stessa morte: quella notte maledetta, fidandosi dei messaggi tranquillizzanti di qualche esperto pressato dalla cattiva politica, non si precipitarono subito in strada.
Un tragico errore (troppi allarmi notturni, troppe corse per uscire all’aperto, troppo freddo in quelle notti passate in ciabatte e pigiama magari senza una coperta…) che il giudice monocratico Monica Croci legge come un «concorso di colpa delle vittime costituendo obiettivamente una condotta incauta quello di trattenersi a dormire così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall’edificio al verificarsi della scossa» e ciò «nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella sera del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile, concorso che, tenuto conto dell’affidamento che i soggetti poi defunti potevano riporre nella capacità dell’edificio di resistere al sisma per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto può stimarsi nella misura del 30% con conseguente proporzionale riduzione del credito risarcitorio degli odierni attori». Un azzeccagarbugli secentesco con penna d’oca, tampone e calamaio, zoppicante in bella lingua, non avrebbe potuto fare di meglio.
Per capirci: una quota di responsabilità del 30% andrebbe spartita, secondo la magistrata, a metà tra i ministeri delle Infrastrutture e dell’Interno, un’altra del 30% agli «incauti» che non si precipitarono dalle scale (reazione d’istinto mille volte sconsigliata da tutti i manuali e gli esperti del pianeta perché le scale sono le prime a cedere inghiottendo i malcapitati) e «il residuo 40% agli Eredi del costruttore». Rileggiamo: «residuo». E questa è infatti l’impressione che si ricava dalla lettura del verdetto: un tentativo di ripartire qua e là i torti ponendo sullo stesso piano, alla pari, i funzionari, gli ispettori, i prefetti, i tecnici che dovevano controllare e non controllarono e le innocenti vittime della loro sciatteria, dei loro silenzi, dei loro timbri d’approvazione se non addirittura delle loro complicità.
Una cosa è certa: tre giorni dopo il crollo del condominio al numero 6b di Via Campo di Fossa, mentre i soccorritori scavavano tra le macerie sotto le quali sarebbero stati trovati i corpi di ventiquattro persone, il dirigente generale dell’assessorato Territorio e Ambiente Antonio Perrotti spiegava già che era stato un tragico errore costruire lì: «Questa è una zona morfologicamente disgraziata». «Le Grotte»: così era chiamata l’area. Perché c’erano sotto spelonche enormi alte anche sette metri via via riempite nei secoli prima con le rovine del disastroso terremoto del 1703 poi con pietre e rottami di altre rovine successive col risultato, spiega il sismologo Gianluca Valensise, che la zona era diventata ancora più instabile e a rischio.
Ogni amministratore pubblico prudente si sarebbe messo di traverso a ogni progetto di costruire lì senza adottare le più rigide, le più ferree, le più precise regole dettate dal buonsenso e dalle leggi, che certo non erano quelle di oggi imposte da troppi terremoti (ricordate? Un alleggerimento delle regole antisismiche fu precipitosamente fatto sparire dal governo Berlusconi il giorno stesso della tragedia aquilana) ma comunque esistevano. Ma come si legge nella sentenza resa nota martedì sul palazzo di via Campo di Fossa, i parenti delle vittime denunciarono da subito «come il collasso fosse imputabile a gravi vizi di progettazione e di costruzione nonché a carenze nel calcestruzzo…». Per non dire delle denunce su «pilastri da 30 centimetri per 60 invece che 80 per 80»…
Nessuno ha pagato penalmente per quei crimini commessi negli anni Sessanta (il Comune rilasciò l’autorizzazione a costruire il condominio il 9 aprile 1963 a condizione che il Genio Civile desse il suo parere positivo «sul progetto strutturale dell’edificio»: via libera concesso in 13 giorni, un record!) dai responsabili dell’investimento palazzinaro: al momento di fare il processo erano tutti morti. I proprietari, i progettisti, i responsabili del cantiere, gli impresari, i controllori che se n’erano infischiati di controllare. Va da sé che i parenti delle vittime, a partire dall’avvocato Maria Grazia Piccinini, Presidente dell’«Associazione Ilaria Rambaldi» intitolata alla figlia che studiava lì all’Aquila, stava per laurearsi e morì col fidanzato nel crollo del palazzo, aspettavano da anni che almeno la giustizia civile rendesse loro una qualche forma di riconoscimento per quella tragedia che amputò per sempre le loro vite.
Leggere ora nella sentenza quelle parole per un lutto irreparabile, carsico e straziante, burocraticamente letto come un «danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale» di padri, madri, fratelli che può «ritenersi presuntivamente provato in ragione dello stretto legame parentale» valutato partendo «dalla tabella da ultimo elaborata dal Tribunale di Milano (ed.22)» le ha spezzato il cuore. La tesi sulle responsabilità condivise tra i costruttori, i funzionari pubblici colpevoli di non avere fatto il loro mestiere e insieme le vittime di quel pressappochismo progettuale, edilizio, amministrativo, l’ha fatta esplodere di indignazione: «Vomitevole», è stato il suo primo commento coi cronisti del Messaggero: «È una sentenza vomitevole».
Come è possibile rovesciare sui morti la «colpa» di essersi sentiti tranquillizzati da chi teorizzava (come Bernardo De Bernardinis, che parlava da vicecapo della Protezione civile, poi condannato proprio per questi messaggi fuorvianti) che «lo sciame scarica energia… Più scosse fa e più scarica…»? Amarissima la relazione di Giusi Pitari, la docente di Biotecnologie che, esasperata dai ritardi nella rimozione delle macerie, promosse con altri la famosa «rivolta delle carriole»: «Arrestateci tutti assieme, siamo stati tutti irresponsabili e colpevoli, anche chi non c’è più. E si piange di nuovo, ancora, in questa città che non può più guarire dopo una sentenza così…».