
Machtkampf auf der Bühne
23 Marzo 2025
«Angoscia e oblio, i Gap a via Rasella»
23 Marzo 2025di Marcello Flores
Il dibattito pubblico attuale sul conflitto russo-ucraino è confinato in genere all’attesa del possibile cessate il fuoco e dell’avvio di trattative che, grazie a Trump, Russia e Ucraina potrebbero iniziare presto. Al tempo stesso i sondaggi ci dicono che solo un terzo degli italiani appoggia ancora Kiev e il suo diritto a difendersi da un’invasione brutale iniziata più di tre anni fa. E nei talk show prevalgono, con la compiacenza di giornalisti conduttori, le posizioni improntate a quel «realismo» il cui capostipite attuale, John Mearsheimer, aveva spiegato nel giugno 2022 che era stato l’avvicinamento della Nato a scatenare l’aggressività di Putin e che occorre «rispettare» interessi ed esigenze dei più forti perché hanno una potenza militare superiore e non possono essere sconfitti.
Per chi è ancora interessato, invece, e per fortuna non sono pochi, a capire la dinamica del conflitto, le sue cause, il possibile esito, il suo legame con una storia passata complessa, articolata e contraddittoria, escono quasi contemporaneamente tre libri molto diversi tra loro, ma tutti utilissimi a comprendere meglio, ad ampliare lo sguardo, a inserire nel lungo periodo — passato e futuro — la drammatica realtà che si sta da tre anni manifestando in Ucraina e in Russia.
La distopia svela gli inganni
Boris Akunin è il geniale pseudonimo di Grigorij Šalvovic Chartišvili, nato in Georgia ma in Russia dall’età di due anni, ora a Londra: Akunin in giapponese vuol dire uomo malvagio, malfattore, ma B. Akunin evoca anche il rivoluzionario Michail Bakunin. Dunque, Akunin è scrittore di romanzi storici e polizieschi, esponente della corrente post modernista, nostalgico di una «Russia che non c’è più», soffocata dalla ragnatela di Putin, che lo ha messo nella lista degli «estremisti e terroristi», degli «agenti stranieri». Viene ora pubblicato da Mondadori il suo L’avvocato del diavolo, brillante e ironico racconto distopico, romanzo — come suggerisce il curatore Paolo Nori — su un futuro possibile, in bilico tra l’ipotesi peggiore (il disastro atomico) e quella migliore (il rinnovamento e la democratizzazione della Russia).
La storia inizia così, e non raccontiamo il seguito per non rovinare il piacere della lettura e dell’invenzione narrativa dell’autore: il Leader Nazionale, mentre sta rispondendo a una delle solite interviste concordate, ha «un ictus, quello che una volta si chiamava “coccolone”». Qualche settimana prima il Leader aveva sostituito i ministri con uomini della sua guardia del corpo, e il «premier diventò Roman Cestnokov, agente dei servizi segreti da generazioni, i cui antenati avevano già servito nel Corpo dei gendarmi». Il suo nuovo consigliere politico, Sergej Markovkin, lo convince a lanciare grandi riforme (la Ristrutturazione Totale), a creare alla Duma il gruppo «Russia Onesta» e a lanciare nuove elezioni sicuro di stravincere. Non sarà così, e il ritorno in patria di uno scrittore dissidente esiliato, Boris Turgencikov («Boris, non è che si sente il nuovo Solženicyn? gridò la giornalista», sono le prime parole del romanzo) sarà dominato dal processo contro Vladislav Chomjacenko, che ricopriva la modesta posizione di ex vicesegretario dell’ufficio presidenziale, il capro espiatorio per tutti i gerarchi sfuggiti a ogni condanna.
Nel testo, ai colpi di scena si alternano richiami al passato, all’ipocrisia di una democrazia debole e falsa e alla «democrazia sovrana» che tende all’autoritarismo senza più limiti, con un uso sapiente e allegorico di nomi distorti che richiamano quelli presenti. Che si manifesterà in una «operazione speciale militare» come atto non di aggressione, ma di autodifesa: dal venire infettati e coinvolti dalla democrazia del Paese vicino.
Contro la «gaiamodernità»
Incentrato su Putin è invece La Russia contro la modernità (Bollati Boringhieri, dal 28 marzo) del russo Alexander Etkind, storico delle relazioni internazionali attualmente a Vienna dopo esserlo stato all’Istituto universitario europeo di Fiesole. L’«operazione speciale» di Putin, per l’autore, è stata lanciata contro il «moderno mondo della consapevolezza climatica, della transizione energetica e del lavoro digitale», contro quella che chiama la gaiamodernità (tutto attaccato, da Gaia, la terra), democratica e riflessiva, contrapposta alla paleomodernità del petrolio e dell’acciaio. Putin si fa alfiere della «demodernizzazione» e del rifiuto di quella «utopia in gestazione» che è alle porte perché «la consapevolezza del cambiamento climatico e della disuguaglianza sociale era la vera minaccia al blocco del potere petrolifero di Putin».
Nello spiegare l’importantissima questione energetico-economica (le esportazioni fossili costituiscono i due terzi delle esportazioni russe e la metà del suo budget federale), Etkind ricorda, attraverso lo scontro che Putin ebbe con Mikhail Khodorkovsky costringendolo all’esilio, come «la privatizzazione fu la madre della corruzione; la rinazionalizzazione il suo onnipotente padre patriarcale». È nel controllo della sfera pubblica, dei media e dell’informazione, dello spazio virtuale e delle università, sovvenzionando solo arti apolitiche (musica classica e danza) che Putin, la cui scheda all’epoca del Kgb lo definiva con «un ridotto senso del pericolo», si è costruito un modello di potere, e di missione, a metà tra San Paolo e Carl Schmitt; appoggiandosi su una società in cui mancano «i padri che si prendono cura dei figli», come ricorda nell’introduzione Luigi Zoja.
Intreccio di economia e psicologia, storia culturale e storia politica, il libro di Etkind individua nel conflitto russo-ucraino «una guerra tra generazioni: un conflitto edipico su scala colossale»; e ricorda come «il putinismo è stato una forma di malvagità complessa per cui non esiste una singola spiegazione». All’interpretazione «realista» che vedeva l’Ucraina come «una scocciatura strategica, un Paese che s’intromette negli affari dei veri Paesi globali», ricorda che Putin ha avuto così tanta paura della Nato che è riuscito a farla arrivare — con la Finlandia — vicina a San Pietroburgo.
La previsione è che in futuro ci possa essere un’esplosione di malcontento, soprattutto tra le tante etnie soffocate, e che il crollo della Federazione russa non sia del tutto da escludere.
Gli affetti, la memoria
In Kyiv. Una fortezza sopra l’abisso (La nave di Teseo), Elena Kostioukovitch, nata in Ucraina, laureata a Mosca e dal 1996 naturalizzata italiana, usa la grafia ucraina per il nome della capitale. Il libro è insieme un racconto autobiografico, una riflessione letteraria, un riassunto storico, un invito a non dimenticare la violenza che gli ucraini subiscono dal 2022, e che non è slegata dalle violenze subite nel passato. È anche un atto d’amore per la capitale ucraina, città di nascita dell’autrice, scrittrice e traduttrice, che impariamo a conoscere dai suoi ricordi, dalle parole di Bulgakov e di Pasternak, dalle immagini tramandate dai suoi protagonisti nel corso, soprattutto, degli ultimi cent’anni.
Il quartiere in cui Elena è nata è stato colpito da una bomba russa il 10 ottobre 2022, ed è lo stesso luogo dove Bulgakov aveva fatto esplodere, nella sua fantasia, una «bomba anatomistica», utilizzando l’invenzione linguistico-tecnologica di Wells, raccontando poi — nel racconto La città di Kiev, che anticipa per molti temi La guardia bianca, dove li riprende — come tra il 1917 e il 1920 il potere a Kiev era passato di mano 14 volte.
È difficile menzionare cosa colpisce di più in questo intreccio di memoria e riflessione, dove l’amore (per la città, la famiglia, i nonni soprattutto, per la grande letteratura esemplificata soprattutto in Bulgakov) cerca di accompagnare la tristezza, l’orrore, la sorpresa nei confronti di avvenimenti poco noti, dimenticati, riscoperti, che rappresentano oggi un passato che fa ancora ombra sul pur tragico presente della recente invasione russa.
C’è la zarina madre Maria Feodorovna che non riesce a distogliere il figlio Nicola II dall’abdicazione, foriera di quella unione di nove province ucraine più quelle della Galizia, Volhynia, Bucovina e Transcarpazia di Polonia e Austria-Ungheria che vanno a costituire il 22 gennaio 1919 l’atto dell’Unità nazionale, con la Repubblica popolare ucraina che si fonde con la Repubblica ucraina occidentale in un’unica realtà indipendente. C’è Leonid Volynsky, nonno dell’autrice, preso prigioniero nel 1941, quando Kiev «fu consegnata dai sovietici ai tedeschi senza colpo ferire, con tutti gli abitanti ignari, tra cui un’enorme comunità ebraica», poi fuggito e autore, a Dresda con l’Armata Rossa, del salvataggio delle opere d’arte (Rubens e Raffaello, Rembrandt e Tiziano) nascoste nelle cantine, poi restituite da Krusciov alla Germania comunista; e c’è suo padre, il bisnonno di Elena, portato via il 31 dicembre 1937 e fucilato con l’accusa di avere sabotato un ponte per farlo crollare, rimasto in piedi in realtà fino all’invasione della Federazione Russa.
Ma c’è anche, tragica e terribile, Babyn Yar (che noi abbiamo sempre chiamato in russo Babij Jar), quando la nonna Raya non riuscì a convincere i suoceri a fuggire ed essi furono tra le vittime di quell’orribile massacro nascosto a lungo alla memoria comune dalle autorità sovietiche. C’è il diario che Raya inizia a scrivere nella vecchiaia, con il suo archivio depositato presso la Columbia University. Ma ci sono anche l’esercito di Petliura che lascia la città nel 1919; Chernobyl, quando «la gente non ha fatto nulla per proteggersi, perché non ne sapeva nulla»; le giornate della Rivoluzione della dignità a Euromaidan nel febbraio 2014. E soprattutto una bella — insieme personale e storica — riflessione sulla lingua, sul dominio della lingua russa e sulla faticosa acquisizione di legittimità e indipendenza di quella ucraina, così simili e così diverse.
Dietro tutto questo c’è Kiev, «la più bella città del mondo», come l’aveva definita Bulgakov, distrutta in alcune tra le sue parti più belle nel 1934-1935 da Stalin, quando i magnifici edifici religiosi (la cattedrale di San Michele, quella di San Nicola, la chiesa di Sant’Olga e tante altre) vengono frantumati, come requisito per poter riportare lì la capitale dell’Ucraina, che era stata spostata a Kharkiv nel 1917. Una città che poteva fare da contraltare alla «capitale oscena», come Osip Mandel’štam aveva chiamato Mosca.
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