Mussolini porta l’Italia in guerra e su Napoli cade una pioggia di bombe: dal 1940 al 1943 è la città d’Italia più colpita dai raid alleati con circa 25mila morti. Dalla destra monarchica agli anarchici, una fitta rete tiene viva la cospirazione contro il regime fascista nonostante arresti e confino. Sarà questo tessuto a innervare la rivolta che porterà Napoli a liberarsi da sola con le Quattro giornate.

L’8 SETTEMBRE del 1943 arriva l’annuncio dell’Armistizio, in Campania ci sono oltre 20mila tedeschi. I generali Riccardo Pentimalli ed Ettore Del Tetto, ai quali era affidata la responsabilità militare della provincia, fuggono ma prima consegnano la città all’esercito germanico. Dal 9 settembre cominciano gli scontri con le truppe nazifasciste a via Depretis, via Santa Brigida, in piazza del Plebiscito. Gli occupanti per rappresaglia appiccano un incendio alla Biblioteca Nazionale e sparano sulla folla. Il 12 un nuovo scontro a via Mezzocannone, i soldati tedeschi fanno irruzione nell’università Federico II con l’intenzione di distruggere la biblioteca. Maria Bakunin, figlia dell’anarchico russo e direttrice dell’Istituto di Chimica, si siede accanto alle fiamme incrociando le braccia, il comandante ordina la ritirata.

LA GIORNATA TERMINA con la dichiarazione di stato d’assedio da parte del colonnello Walter Schöll, comandante delle forze armate occupanti. Il proclama viene affisso sui muri il giorno successivo. Al punto 2: «Chiunque agisca contro le forze armate germaniche sarà passato per le armi. Inoltre il luogo del fatto e i dintorni verranno ridotti a rovine. Ogni soldato germanico ferito o trucidato verrà rivendicato cento volte». Al punto 6: «Questi ordini e le già eseguite rappresaglie si rendono necessarie perché un gran numero di soldati e ufficiali germanici furono vilmente assassinati o gravemente feriti, anzi in alcuni casi i feriti anche vilipesi e maltrattati in modo indegno da parte di un popolo civile». La rivolta spontanea è in atto ormai da giorni.

BOMBARDAMENTI, miseria, razzie, esecuzioni, rastrellamenti e gli Alleati che non arrivano. La rete clandestina inizia ad armarsi saccheggiando gli arsenali. Il 23 settembre Schöll ordina lo sgombero di tutta la costa fino a 300 metri dal mare, probabilmente per distruggere il porto, e il prefetto intima la chiamata al servizio di lavoro obbligatorio per i maschi fra i 18 e i 33 anni, cioè la deportazione forzata in Germania. L’esito in un nuovo proclama di Schöll: «Al decreto hanno risposto circa 150 persone, mentre secondo lo stato civile avrebbero dovuto presentarsi oltre 30mila. Da ciò risulta il sabotaggio. Incominciando da domani coloro che sono contravvenuti agli ordini pubblicati saranno dalle ronde senza indugio fucilati».

IL 26 SETTEMBRE la folla si scaglia contro i nazisti liberando gli uomini catturati, il 27 cominciano i combattimenti, una delle prime scintille al Vomero in località Pagliarone. Il primo ottobre i carri armati alleati entrarono nella città già liberata. Secondo la Commissione ministeriale per il riconoscimento partigiano le vittime furono 155 ma dai registri del Cimitero di Poggioreale risulterebbero almeno 562 morti. Gli Alleati hanno atteso lasciando che gli antifascisti venissero uccisi fino alla ritirata, Hitler aveva chiesto che Napoli fosse ridotta «in cenere e fango».

A RICOSTRUIRE LE STORIE di chi si è opposto al regime è lo storico Giuseppe Aragno (Antifascismo popolare, manifestolibri, 2009; Le Quattro giornate di Napoli, Intra Moenia, 2017). Com’era la città che si rivolta lo racconta la biografia di Federico Zvab: triestino di famiglia socialista, ha partecipato alla lotta rivoluzionaria in Francia, Germania, Austria, Lussemburgo, Belgio. In Spagna guida una brigata di oltre 200 volontari: catturato, viene espulso in Italia e confinato a Ventotene. Da lì arriva all’ospedale Incurabili di Napoli alla fine del 1942. Agli Incurabili, Zvab incontra il dottor Cicconardi che, con parte del personale, tiene i contatti con la rete clandestina fino a conservare armi nell’ospedale. «Zvab giunge a creare una trama di relazioni così fitta ed efficiente che, dopo l’armistizio, ha organizzato venti gruppi pronti a combattere. Una pattuglia di reduci di Ventotene resta a Napoli, combatte, contribuisce alla vittoria, poi si disperde». La città quindi è uno dei nodi dell’Italia resistente.

CHI NON COMBATTE è Emilia Buonacosa: «Lavora in fabbrica a Nocera Inferiore quando si fa notare per le idee libertarie e i contatti con noti estremisti. Nel 1913, giovanissima, è inclusa tra i sovversivi pericolosi». Espatria clandestinamente nel 1927: a Parigi frequenta fuorusciti, è segnalata tra gli anarchici capaci di compiere atti terroristici. Nel 1937 è a Barcellona. Tornata a Parigi, nel 1940 è deportata in Germania e poi consegnata alla polizia italiana, condannata a 5 anni di confino a Ventotene. Nelle Quattro giornate non c’è perché rinchiusa nelle colonia penale in condizioni durissime. L’8 settembre è ancora al confino, da cui rivendica la liberazione «per le mutate condizioni politiche»: lei che ha combattuto contro la dittatura, è costretta a chiedere la libertà all’ex fascista Badoglio. Dal campo di concentramento di Fraschette d’Alatri partirà solo il 7 agosto 1944: «Il fascicolo di polizia in cui è schedata perché “pericolosa alla sicurezza pubblica” vive fino al 1959».

COMBATTE invece armi in pugno Maddalena Cerasuolo: non solo partecipa agli scontri ma continua la lotta anche dopo le Quattro giornate. Diventa una spia per il Servizio inglese, passa le linee 7 volte (paracadutata e via sommergibile), si finge cameriera in casa della cantante Anna D’Andria e, con la sua complicità, raccoglie informazioni sui piani tedeschi. In armi anche Giovanna Baiano che, con un gruppo di antifascisti, fin dal 9 settembre si nascondono nel bosco di Chiaiano per dare battaglia contro gli occupanti. Le donne giocano un ruolo cruciale in una città in cui gli uomini si devono nascondere per i rastrellamenti.

«PASSATA LA BUFERA – spiega Aragno – spariscono quasi tutte nel nulla e quando se ne parla diventano popolane prive di convinzioni politiche. Sulle 8.457 domande di riconoscimento (della qualifica di partigiano ndr) presentate, 8.341 riguardano gli uomini e solo 316 le donne, per lo più vittime di stragi. Sulle 62 donne riconosciute partigiane, 23 sono le cadute, le invalide e le ferite». Del resto viene sottostimato anche il contributo degli uomini: solo 1.589 combattenti ufficialmente riconosciuti in totale, molti altri bollati come approfittatori. Sparisce anche il contributo dei «femminielli» in armi a San Giovanniello. Elementi funzionali al racconto, alimentato per anni, di una insurrezione senza politica, mossa dalla fame e vittoriosa per abbandono di campo dei tedeschi.