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12 Novembre 2023Pochi libri sono attuali, pur essendo profondi e sofisticati da un punto di vista culturale, come questo Cultura e imperialismo: Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente di Edward W. Said, che Feltrinelli meritoriamente pubblica in lingua italiana, con la pregevole traduzione di Anna Tagliavini e Stefano Chiarini, a trenta anni dall’edizione originale inglese (1993-2023).
L’attualità del libro dipende dal fatto che Said pur avendo vissuto e lavorato per quasi tutta la vita in Occidente – professore presso Columbia University dal 1963 fino alla morte avvenuta nel 2003 – era di origine palestinese e ha – nel corso dei suoi scritti – spesso spiegato perché in molti Paesi di quello che si chiama Oriente in senso lato, ma che possono includere, oltre al Medio Oriente e l’Asia, anche l’Africa, il Sud America e persino l’Australia e l’Irlanda finendo col corrispondere con quanti hanno subito forme diverse di colonizzazione, gli occidentali non sono amati e anzi sono visti come dei biechi prevaricatori.
La cosa interessante è che Said fa qualcosa del genere non ricorrendo alla saggistica politologica e tantomeno a pamphlet polemici ma dal punto di vista dell’analisi delle culture. Si può affermare che nessuno come lui ha chiarito che molti Paesi di quello che una volta si chiamava “Terzo Mondo” hanno subito una vera e propria violenza epistemica da parte dell’Occidente nel corso degli ultimi secoli. Questa sorta di denuncia culturale è di norma argomentata da Said a partire dai testi letterari, dato che in fin dei conti era un professore di letteratura comparata che si occupava di storia della cultura.
Ed è stata recepita da migliaia di studiosi perché Said era anche e soprattutto un grande intellettuale. Letterato, come si diceva, ma anche musicologo, straordinario conoscitore della psicoanalisi, esperto di teatro, filosofo e storico, Said – dopo la pubblicazione del suo insieme celebrato e criticato Orientalism del 1978 – è vissuto circondato da una grande fama, come ho potuto constatare anche io quando lo ho incontrato da visiting nella sua Columbia.
Per essere sincero. devo dire che non condividevo e non condivido la maggior parte delle sue tesi teoriche, ma al tempo stesso sono sempre rimasto affascinato e colpito dalla raffinatezza intellettuale e dalla conoscenza dei temi trattati dell’autore.
Anche in Cultura e Imperialismo si può dire che lo scopo principale sia quello di mostrare il coinvolgimento – spesso involontario ma sempre evidente agli occhi di Said – della cultura e della letteratura nel processo di espansione imperiale di Paesi come Inghilterra e Francia prima, e degli Stati Uniti dopo.
Laddove il significato di imperialismo è quello classico, e corrisponde a pensare di «controllare e colonizzare una terra che non è nostra, ma distante, ed è abitata e posseduta da altri». Nell’ambito dell’imperialismo, il colonialismo corrisponde a insediamenti di cittadini delle zone metropolitane nei territori occupati. Si può dire che dopo il 1945 il colonialismo in senso stretto è finito o quasi mentre l’imperialismo continuerebbe in altre forme. Naturalmente, la tesi principale di Said – da Orientalism a questo libro – implica che né imperialismo né colonialismo possono essere privi di un forte apparato ideologico, in cui il desiderio emancipativo si coniuga con la violenza. In questa ottica, forse nessuno scrittore come Conrad, lungamente discusso nel libro e su cui Said aveva scritto la tesi di dottorato e il primo libro, ha compreso e descritto questi stati d’animo simmetrici e i loro problemi. In particolare, il grande affresco da lui proposto in Cuore di tenebra, narra da un lato l’inutilità della missione europea nel mondo delle tenebre (l’Africa) e dall’altro la trasformazione progressiva dell’imperialismo da missione avventurosa e individuale in predazione capitalistica. L’anziano Marlow, la voce narrante del romanzo, rivelerebbe la realtà del dominio connessa a imperialismo e colonialismo. Ma lo stesso Marlow con Kurtz, l’altro protagonista del romanzo, pur comprendendo questo, non riescono a concludere che tale forma di dominio dovrebbe finire lasciando liberi i “nativi”, evidenziando così i limiti del proprio tempo e quelli di Conrad stesso (morto nel 1924).
In sostanza, una delle tesi principali di Said è che non possiamo apprezzare grandi autori, per esempio nella letteratura inglese, come Carlyle e Ruskin, ma anche Shakespeare, senza pensare che al tempo stesso incoraggiavano la sottomissione di popoli” inferiori” (credo che in realtà si possa benissimo…). Lo stesso si dovrebbe dire di Dickens, altro autore caro a Said, che rappresenterebbe in primo luogo gli interessi commerciali della ruling class inglese (ma, mi chiedo, chi legge Il Circolo Pickwick per questa ragione?).
Più interessante, a mio avviso, è l’idea di riscrivere la storia dei Paesi ex-colonizzati alla luce delle loro esperienze e narrazioni locali, invece che vederla esclusivamente in un’ottica occidentale.
Non c’è dubbio, infatti, che la stragrande maggioranza di ricerche in scienze sociali e storia globale sia stata basata su paradigmi creati in Occidente che non tengono sufficientemente conto della storia e della cultura dei Paesi ex-colonizzati. Persino studiosi controcorrente rispetto alla tradizione occidentale dominante come Michel Foucault e Raymond Williams – fa notare Said – non si occupano di questo deficit interpretativo. Anche la letteratura comparata e la Weltliteratur non facevano eccezione fino a pochi anni orsono, mentre oggi a questa occidentalizzazione forzata fa da contraltare la rilevanza di studiosi di Paesi già colonizzati che mettono in connessione Oriente e Occidente, le sorti locali dei popoli dell’ex “Terzo Mondo” e così via. In materia, Cultura e Imperialismo fornisce non solo una lettura sofisticata ma anche un’utile fonte di informazione. Solo di recente, infatti, in Occidente ci si è accorti che i popoli ex-colonizzati possono dissentire sulla ricostruzione del loro passato proveniente dalle culture europee e nordamericane. Sulla scorta di una lettura originale di Gramsci, suggerisce Said, gli occidentali e gli ex-colonizzati si contendono in realtà lo stesso territorio.
Ma ci sono anche terreni in cui gli occidentali e gli ex-colonizzati possono intendersi e integrarsi. Se L’Immoralista di Gide e Passage to India di Forster sono due esempi di incontri mancati, ci sono invece scrittori postcoloniali, non solo Fanon ma Aimé Césaire e Ranajit Guha con i Subaltern Studies indiani, a portare alla luce un passato che non passa, fatto di ferite umilianti e di violenze culturali.
Ho anticipato che talune idee di Said mi lasciano perplesso. La prima tra queste consiste nella virulenta politicizzazione della cultura che lui propone. A suo avviso, la cultura è una specie di agone in cui le varie opzioni ideologiche entrano in conflitto tra loro. Al limite, all’interno di questa visione, la poesia e l’arte sono l’altra faccia della schiavitù e del colonialismo. Da un lato ci siamo “noi” e dall’altro “loro”, e non c’è possibilità di pacificazione tramite la cultura. Al contrario, la resistenza culturale precede e arma quella militare. Posso anche capire, ma francamente non riesco ad accettarlo.