Il tunnel di Hamas a Khan Yunis, dove il regista del 7 ottobre si è nascosto con lo scudo di 12 ostaggi
DKHAN YUNIS (STRISCIA DI GAZA)
La sotto, il sopra non esiste. Non si sente, non si percepisce, non si vede. Nell’oscurità umida e afosa di questo tunnel chilometrico che puzza di fogna e innerva le viscere di Khan Yunis, ogni decisione presa sembra priva di conseguenze. Ogni essere umano diventa ombra. Si cammina per centinaia di metri con la testa incassata nelle spalle attraverso gallerie di cemento tutte uguali, larghe sessanta centimetri e alte poco più di un metro e settanta. Non ci sono indicazioni. «Riposa in pace, Abdul Salam», è l’unica scritta, in arabo, letta in un angolo. Le pareti trasudano umidità, bagnando la guaina di plastica dei cavi che portavano l’elettricità alla ragnatela. Ora sono il filo d’Arianna per ritrovare l’uscita.
Si passano cancelli e porte di ferro, a tratti gli scarponi affondano nella fanghiglia, si entra in cucine rivestite in ceramica colorata e bagni sudici con piastrelle che riproducono il mare con le palme. Niente di più lontano da questo “non luogo”. Si scende giù in profondità. Dieci metri, venticinque metri, trenta metri, più il tunnel va giù più l’ossigeno diminuisce e si fatica a respirare quest’aria esausta, mille volte respirata da altri. «Qui hanno tenuto dodici ostaggi israeliani», dice a un certo punto il generale di brigata Dan Goldfus, comandante della 98° Divisione paracadutisti. «E qui si nascondeva Yahya Sinwar».
Nella ragnatela di Khan Yunis
Repubblica è entrata in uno dei complessi principali della rete scavata da Hamas. Importante per la complessità ingegneristica, per ciò che vi è stato trovato dentro e per chi lo abitava. «Per prenderne il possesso abbiamo combattuto intensamente all’interno delle gallerie, che erano minate e piene di trappole», premette l’ufficiale.
Si accede da un buco in un terrapieno nel mezzo di un quartiere residenziale di Khan Yunis. O meglio, di quel poco che rimane del quartiere: siamo nel centro della seconda città della Striscia di Gaza, devastato, irriconoscibile, spianato dai bulldozer blindati e quasi raso al suolo da più di quattro mesi di bombardamenti. I palazzi non sono danneggiati, sono collassati in cumuli di macerie. Dove ora si apre il cratere con la bocca del tunnel, prima c’era una casa abitata da palestinesi. Attorno, i panni stesi e le piante sul balcone. Di civili non c’è traccia. In superficie si sentono sparatorie, esplosioni, il ronzio delle eliche dei droni che volano nel cielo terso mattutino. Si scendono i quattordici gradoni in muratura della scala iniziale, il mondo si spegne. Si precipita nel buio e nell’assenza dei suoni.
Shalom
OfakimSegev
La stanza del capo
Hovav
Ramat
Quella che viene indicata dal generale Goldfus come «la stanza di Sinwar» è un locale stretto e lungo di 20-25 metri quadrati, con la volta a botte, intonacato e rivestito in ceramica. Il soffitto è più alto rispetto alle gallerie. Sulla parete sono installati gli interruttori per la luce, due staffe con la placca metallica per appendere le televisioni e diverse prese per l’antenna. Forse c’era pure il collegamento a internet, portato trenta metri sotto terra da uno dei tanti fili su cui si inciampa nella penombra. «È probabile…».
Nella camera i segni di un bivacco abbandonato in fretta: due tavolini di legno, stoviglie, una valigia sventrata, due tappeti, una bombola del gas, un letto di plastica con un materasso marrone, bottiglie d’acqua, libri, del cibo avariato. «Siamo convinti che questa stanza, che fa parte del compound, sia stata utilizzata da Sinwar e da altri leader di Hamas», sostiene l’ufficiale. Non spiega su cosa fondi questa convinzione e non è possibile verificare la circostanza con fonti indipendenti.
L’impressione è che l’intelligence israeliana abbia acquisito degli elementi in tal senso, ma che li stia ancora valutando e pesando. Oppure che non voglia rivelarli alla stampa per non compromettere la caccia all’uomo che ha ideato il massacro del 7 ottobre. Solo la sua cattura, o uccisione, potrebbe mettere la parola fine ai bombardamenti e agli attacchi aerei che hanno provocato finora 27 mila vittime tra cui molti bambini, secondo il conteggio delle autorità palestinesi.
Il segreto di Hamas
Il tunnel fa parte di quello che l’Idf ritiene essere un «compound», cioè uno snodo cruciale per il comando di Hamas che si dipana sotto Khan Yunis e si connette a centinaia di cavità nel tessuto urbano come quella da cui siamo entrati. «Prima della guerra aveva una funzione solo logistica, dopo è stata riadattato a prigione per nascondere i rapiti dei kibbutz». Un rifugio simile è stato scoperto di recente in un’altra area della città, in quel caso è stato detto che era l’ufficio operativo del fratello di Sinwar, Mohammed.
Camminando lungo le gallerie e osservandone da vicino la struttura basica, si intuisce come sia stato possibile costruire, negli anni e nella clandestinità, un’opera del genere. Il segreto è nel terreno argilloso della Striscia. Tra le intercapedini dei moduli di cemento si intravede la sabbia, non ci sono mai sasso o pietrisco. Per realizzare la “metropolitana” di Gaza, che secondo alcune stime si estende per 700 chilometri (quasi il doppio di quella, vera, di Londra), i miliziani hanno grattato un terreno morbido, consolidando poi i tunnel con prefabbricati di cemento composti da due stipiti larghi trenta centimetri e un arco sopra. Così per chilometri e chilometri. E milioni di moduli, posti uno di seguito all’altro.
Insieme a Repubblica ci sono Le Monde, il Wall Street Journal e laCnn. Le regole di ingaggio per l’embedded sono le solite: alla fine del viaggio, durato cinque ore,l’ufficio della censura militare ha analizzato il materiale video e fotografico raccolto a Khan Yunis e ha chiesto di non pubblicare due immagini esterne attorno all’imbocco del tunnel perché «possono rendere localizzabile la posizione delle truppe». Ai giornalisti è tuttora impedito l’ingresso in autonomia a Gaza.
La gabbia
Dopo quindici minuti nel dedalo, si suda per il caldo pur stando fermi. Dopo quaranta minuti anche il respiro si fa più faticoso. Il corpo si deve abituare alle inusuali condizioni ambientali, la mente si sforza di non cedere alla claustrofobia. Si ha fame d’aria. Il senso del tempo si perde, cinque minuti diventano mezz’ora, e mezz’ora diventa cinque minuti. «È ciò che hanno sopportato per settimane i dodici ostaggi tenuti in gabbia». In gabbia. E in effetti così appare quest’ultima stanza, pavimentata, rivestita di mattonelle bianche con un motivo arabescato marrone, chiusa da sbarre d’acciaio, con un cancello d’ingresso e un chiavistello. All’interno non ci sono né letti né sedie.
Niente arredo, nessuna presa d’aria, solo un ventilatore appeso in alto, in prossimità di un varco che conduce a un bagno senza doccia.
Stavolta Goldfus è prodigo di dettagli. «Siamo certi che i nostri fossero segregati qui perché abbiamo prove forensi». Significa che hanno potuto estrarre il dna da tracce biologiche raccolte nei locali. «Tre di loro sono stati rilasciati durante la tregua di fine novembre». Si tratta di Sahar Calderon, 16 anni, Sapir Cohen, 29 anni, e Or Jacob, 17 anni, che vivevano nel kibbutz Nir Oz, vicino al recinto della Striscia. Anche in questo caso le parole del generale non sono verificabili, ma la descrizione fatta dai tre dopo la liberazione combacia con l’aspetto della gabbia. Degli altri nove ostaggi non si hanno notizie.
Seguendo a ritroso i cavi dell’elettricità, si ritorna al primo tratto del tunnel, quello più fangoso dove si erano appostate le guardie di Hamas. Da lì si passa alla scaletta dove filtra un raggio di sole del mondo di sopra. Siamo stati giù per più di un’ora, percorrendo gallerie per 900 metri. Lungo il percorso si sono visti diversi cunicoli laterali. Alcuni erano interrotti da sacchi di sabbia. Altri affondavano per chilometri nel ventre molle della città distrutta.