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21 Luglio 2023Lucca Summer Festival Aspettando il concerto di domani, Vanni Santoni racconta la scoperta della band grazie alla Playstation e alla sigla di Fifa ‘98. Quando il Brit Pop aveva già fatto storia
di Vanni Santoni
Woo-hoo! / woo-hoo! / woo-hoo / woo-hoo! I got my head checked / By a jumbo jet / It wasn’t easy / But nothing is, no… Woo-hoo!
Era il 1998 e grazie a Fifa – appunto – ’98, immortale gioco per la prima Playstation e miglior declinazione di un franchise sportivo in fondo mediocre, che fu infatti poco dopo superato dai concorrenti (qualcuno ricorderà Winning ele ven , o ISS pro che dir si voglia) bucavamo sessione di esame dopo sessione di esame, fuggendo anzitempo dalla biblioteca per dedicarci a infinite maratone di gioco, testando ogni squadra, dalle nazionali alla Serie A fino all’Académica, peggior compagine del campionato portoghese, e al tempo stesso scoprivamo i Blur.
Sì, perché quella che per noi era solo «la sigla di Fifa ’98», altro non era che Song 2 della band di Colchester, canzone uscita l’anno precedente all’interno di Blur , il loro quinto album. Quinto. I Blur avevano cominciato a suonare nel 1988, il Brit-pop era nato dalle ceneri dello shoegaze e della scena di «Madchester», era poi esploso nel 1992 (oltre che coi Blur e ovviamente gli Oasis, anche con band meno globali ma forse più interessanti come Suede e Pulp), aveva raggiunto il picco d’interesse nel 1995, con la «Top of the pops battle», ovvero la celebre rivalità tra Blur e Oasis (tanto fu l’hype che qualcuno osò paragonarla a quella tra Beatles e Stones), e culminato nel 1996, col concerto di Knebworth che segnò la vittoria quantomeno commerciale della band dei fratelli Gallagher con le sue 250.000 presenze. Tutto ciò era avvenuto senza che noi ce ne accorgessimo minimamente.
Nel 1998, il Brit-pop era già storia passata, ma per il nostro gruppo di amici non era proprio esistito, e lo scoprivamo con quella canzoncina — innegabilmente catchy — che ogni volta anticipava la brama di giocare a Fifa, e portava con sé un sicuro lampo di gioia perché il suo attacco indicava che il gioco aveva finito di caricare. Ebbene sì, ancora ai tempi della prima Playstation i giochi dovevano caricare , come col Commodore 64.
Peraltro, a ben ascoltare, Song 2 non è molto rappresentativa del suono e della poetica dei Blur: inquadrata a debita distanza, risulta evidente che si tratta di una parodia del grunge americano (quanto sono nirvanose le chitarre?), forse un gesto del tipo «guardate che se vogliamo lo sappiamo fare pure noi». Si arriva così al perché il Brit-pop ci era passato sotto ai radar. I Nirvana, infatti, come gli Alice in Chains o i Soundgarden, li ascoltavamo. Senza strapparci i capelli, ma li ascoltavamo, e un paio di membri del nostro gruppetto, che vivacchiava tra bar, biblioteca e fughe a casa per giocare a Fifa, erano pure stati all’ultimo concerto italiano, e tra gli ultimi in assoluto, di Kurt Cobain. In fondo riconoscevamo al grunge una discendenza dal punk, e quindi un quarto di nobiltà. Il fatto è che avevamo scoperto il rock, o almeno l’ultima grande stagione del rock inglese (e irlandese), quella anni 80, al liceo, scambiandoci cassette di Queen, Dire Straits, Police e U2, e per noi il rock era, e poteva essere, solo quello. Quando ci stancammo di fondere quelle TDK, Maxell e BASF (tutta la musica era piratata, ed esisteva una piccola sottocultura relativa alla decorazione dei libretti delle cassette, specie sulla costola, che avrebbe poi fatto mostra di sé nelle rastrelliere delle camerette), cominciammo a interessarci ai tentativi di chi dal rock classico era voluto uscire, per una strada o per l’altra: i più guardarono al punk (la strada della semplicità e della rabbia, del resto consona a degli adolescenti), che conosceva una piccola rinascenza con i gruppi in quota Epitaph: Bad Religion, NOFX, Rancid…; altri al metal nelle sue varie declinazioni; qualcuno, più raffinato, tornò al prog.
Di certo, l’avvento di questo nuovo pop-rock, prodromo di ciò che successivamente sarebbe stato chiamato indie, non poteva emozionarci. Anzi, non ce ne accorgevamo proprio: del resto, ai tempi, non ci emozionavano neppure i sommi Beatles, perché erano in fondo la musica dei nostri genitori. Tra la fine degli anni 90 e l’inizio degli anni Zero, poi, sarebbe arrivato, sempre dall’Inghilterra — no need to say — il «big beat» di Prodigy, Aphex Twin e Chemical Brothers, a spazzar via a suon di bassi anche il più vago ricordo di quella stagione, e aprire il campo all’avvento della rave culture e della sua teoria infinita di sigle sotterranee e sconosciute ai non iniziati (ma, ehi, sempre inglesi): Spiral Tribe, Desert Storm, Total Resistance, Hekate… Ci sarebbe voluto del tempo per uscire da quella travolgente spirale di bassi, poi alimentata da degni emuli francesi, italiani e ceki, e quando lo avremmo fatto ci saremmo scoperti adulti — anzi, secondo la definizione che avremmo usato ai tempi delle partite di Fifa ’98, gente di mezza età: pronti, di fatto, a beccar per caso in radio un pezzo dei Blur, specie dei primi Blur, guarda caso precedenti a Song 2 , quelli che vanno dal debutto con Leisure a picco di successo di The great escape , e dire, dalla nostra poltrona (prodromo della sedia a dondolo, certo): Ehi, però, sai che questi non erano così male? Orecchiabili, si lasciano ascoltare… Com’è andata, poi, che ce li siamo persi?
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