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21 Settembre 2025Saggistica storica «Non cose nuove, ma in modo nuovo», questa la coscienza del mutamento nei secoli X-XIV: una serie di saggi indaga l’innovazione in diversi ambiti, anche sorprendenti: «Medioveo che crea», Laterza
Se liberarsi dai luoghi comuni è difficile, quando si parla di medioevo sembra quasi impossibile: nel discorso pubblico, ai secoli bui per antonomasia sembra scontato associare oscurantismo, immobilità e arretratezza. L’immagine è semplicistica, nonché fuorviante, ma una volta usciti dalla propria bolla gli specialisti del settore se la trovano inevitabilmente davanti, come una vecchia conoscenza cui non si sa bene cosa dire. Chi cerchi uno strumento efficace per scardinare questi stereotipi può leggere ora il bel volume curato da Franco Franceschi, Paolo Nanni e Gabriella Piccinni, Medioevo che crea Innovare, inventare, sperimentare nell’Italia dei secoli X-XIV (Laterza «Storia e società», pp. 355, € 24,00). Una tesi di fondo attraversa i ventiquattro saggi, brevi ma sostanziosi, che compongono il libro: tutt’altro che immobile e oscurantista, il medioevo fu un’età aperta in molti campi alla sperimentazione.
Il volume si focalizza sulla penisola italiana, segnata tra il X e il XIV secolo da profonde trasformazioni politiche, sociali, economiche e culturali. Ma l’Italia bassomedievale non era un mondo chiuso in se stesso: molte invenzioni o innovazioni che caratterizzano la penisola nell’arco cronologico preso in esame sono riconducibili a scambi e interazioni con culture e contesti diversi, non a un presunto genio creativo italico. Nell’Italia del Due e del Trecento, per esempio, la manifattura tessile raggiunse livelli eccezionali rielaborando tecniche e conoscenze importate da altre regioni: per il cotone dall’Africa islamica e dal Levante, per la lana dalle Fiandre, per la seta dal mondo bizantino, a sua volta debitore della Persia. Questa forma di «imitazione creativa» è sottolineata da Franco Franceschi nella sua introduzione, che offre una serie di indicazioni di metodo preziose su come pensare e rappresentare storicamente l’innovazione. La questione è anzitutto epistemologica: non è detto che sia da considerare innovativo (solo) ciò che prima non esisteva, secondo un paradigma diffuso in campo scientifico e tecnologico. Sul piano storico l’innovazione è parte di una dialettica che non può prescindere dalla tradizione, e spesso corrisponde non a un singolo evento, ma a un processo che può distendersi su tempi relativamente lunghi. Oltre tutto, tale processo porta talvolta a risultati inaspettati, altre volte a vicoli ciechi la cui storia – scrive Franceschi – «non è probabilmente meno istruttiva di quella delle imprese coronate dal successo».
Se il primo saggio introduttivo spiega il senso e gli obiettivi del volume, i due seguenti mettono a fuoco altrettanti fili rossi che attraversano vari contributi: la consapevolezza che gli uomini e le donne del Medioevo avevano del mutamento (il saggio di Paolo Nanni), e il rinnovamento dei linguaggi nella comunicazione pubblica e nell’auto-rappresentazione del potere cittadino, a partire dalla costruzione di palazzi e ospedali, fontane e logge (il saggio di Gabriella Piccinni). Dal primo punto di vista, si sa che il mondo medievale esprime un certo disagio di fronte al mutamento: così in ambito ecclesiastico ogni progetto innovatore è descritto come «riforma» o re-formatio, come ritorno a una forma originaria e migliore; e gli autori medievali si presentano volentieri come semplici compilatori o commentatori, nascondendo le novità dietro il prestigio della tradizione. Non nova, sed nove: non cose nuove, insomma, ma in modo nuovo. Questo understatement, tipico di un’epoca in cui il termine modernus ha di rado accezione positiva, non ha impedito alla storiografia di individuare elementi dinamici e sperimentali nella società e nella cultura medievali. La lettura di Medioevo che crea invita dunque a un esercizio stimolante di distinzione tra il nostro modo di vedere l’innovazione, e le categorie con cui essa era pensata nel medioevo; tra l’innovazione in quanto dato oggettivo, e la sua rappresentazione.
Venendo ai contenuti, il volume si articola in quattro parti che coprono ambiti diversi: dalle istituzioni cittadine alla cultura materiale, dalla riflessione filosofica all’immaginario collettivo. Nella prima sezione, dedicata alle forme della governance urbana, Élisabeth Crouzet-Pavan mostra come già nel Duecento le autorità cittadine sviluppino una crescente consapevolezza ambientale nella gestione dell’acqua, dei rifiuti, della sanità pubblica. Fabio Gabbrielli legge nell’architettura dei palazzi comunali l’espressione visibile di un potere collettivo che si legittima con la pietra, mentre Maria Grazia Nico ci porta nel laboratorio degli statuti cittadini, nati da una rielaborazione creativa di fonti giuridiche romane, canoniche e consuetudinarie. Luciano Palermo analizza le innovazioni finanziarie: la nascita del debito pubblico, l’uso di titoli di credito. Massimo Vallerani tratta invece la trasformazione del processo penale, ovvero l’adozione del modello inquisitorio per correggere gli eccessi degli ecclesiastici.
Nella seconda sezione, dedicata a politica e società, Giacomo Todeschini esplora la formazione di un lessico economico che integra la ricerca del profitto entro una cornice etica di matrice cristiana. Sergio Tognetti documenta l’emergere, nel settore manufatturiero e nei commerci, di logiche aziendali complesse e di un’organizzazione del lavoro più razionale. Marina Gazzini mostra come la solidarietà si istituzionalizzi nel passaggio da una concezione individuale dell’elemosina o «carità» a strutture di assistenza promosse dalle autorità civiche, mentre Andrea Zorzi interpreta il comune come uno spazio di sperimentazione istituzionale, dove si definisce una nuova idea di cittadinanza. Sandro Carocci e Antoni Furió ampliano lo sguardo al mondo rurale: il primo evidenzia le trasformazioni del potere signorile nelle campagne, il secondo restituisce agency ai contadini, capaci di elaborare autonomamente strategie economiche e innovazioni tecnologiche.
La terza sezione affronta saperi e tecniche. Mathieu Arnoux invita a leggere il Medioevo come un’epoca di transizione energetica, segnata da un uso integrato e sostenibile di fonti diverse (acqua, vento, animali). Andrea Cantile segue invece l’evoluzione delle rappresentazioni cartografiche, mentre Amedeo Feniello ripercorre i canali attraverso cui saperi scientifici e commerciali provenienti dall’Oriente entrano nell’orizzonte italiano. Sulla nascita delle università si concentra Carla Frova, evidenziandone la natura corporativa, nonché la ridefinizione delle modalità di trasmissione del sapere, dei generi testuali e delle figure docenti che la nuova istituzione portò con sé. A questo quadro si collega Enrico Faini, che ricostruisce i significati del termine orator: nel XII secolo il professionista della preghiera, che aveva sostituito l’oratore ciceroniano, cede a sua volta il passo al professionista della parola, al retore, al giurista o al notaio. È una trasformazione profonda, che conferma la grande intuizione di Jacques Le Goff sul nesso tra intellettuale medievale e città. Eppure, suggerisce Faini, l’ambiguità originaria non si perde del tutto: in Dante, il termine «oratore» non è attribuito a un intellettuale urbano, ma al monaco Bernardo di Clairvaux.
L’ultima sezione si concentra su linguaggi, idee e rappresentazioni. Sul modo in cui il genere dei viaggi nell’Aldilà contribuisca a riformulare l’esperienza religiosa si sofferma Franco Cardini, mentre Beatrice Del Bo mostra come le donne partecipino attivamente alla vita economica delle città, e, seppur considerate giuridicamente inferiori, compaiano nei tribunali più spesso di quanto si potrebbe pensare. Michele Pellegrini esplora i processi di costruzione della memoria civica e religiosa, spesso legati a culti locali e alla scoperta/invenzione strategica dei corpi santi. Ilaria Taddei segue infine le traiettorie della prudentia, virtù centrale della cultura politica cittadina, tra testi morali, dibattiti politici e iconografia pubblica.
Intrecciati sapientemente, i diversi capitoli offrono a chi legge un quadro ben articolato degli ambiti, talvolta insospettabili, in cui si esercitò la ‘creatività’ medievale. Lo spazio a disposizione ha imposto la sintesi, ma dietro alle circa quindici pagine di ciascun saggio stanno anni di ricerche di prima mano, condensate da autori e autrici in una serie di affondi utili a chi si occupi del medioevo per mestiere, e stimolanti per chiunque sia interessato alla dimensione creativa della storia, fatta di innovazioni più o meno consapevoli, di invenzioni che non nascono dal nulla, e di sperimentazioni spesso necessarie.