
La guerra che c’è, la casa comune che non c’era
22 Novembre 2025
IL PICCOLO NAZI
22 Novembre 2025
Pesano le parole pronunciate ieri dal Guardasigilli, sulla mascolinità inemendabile. Pesano perché le ha pronunciate un ministro della Repubblica in un luogo dove si svolgeva un confronto istituzionale internazionale sulla violenza contro le donne, a pochi giorni dal 25 novembre. Pesano perché siamo alla vigilia dell’approvazione unanime di due misure determinanti nella strategia di contrasto alla violenza che contraddicono radicalmente, nelle ragioni e nella storia che hanno alle spalle, il senso di quelle affermazioni. E pesano anche per il tono, il linguaggio che le ha accompagnate: i maschietti, le femminucce, la riflessione quasi estemporanea. Non è questione di anacronismo, ma di gravità che scompare. Accostarsi a un tema di questa portata con un lessico adatto a scuole d’altri tempi, esprimendo pensieri che sembrano ignorare – prima ancora di contraddire – mezzo secolo di riflessioni, studi, ricerche confluiti in una stratificata normativa sovranazionale, sembra rivelare quanto poco valore gli si attribuisce.
Pesano, poi, perché non sono isolate. Sono espressione di una convinzione radicata, diffusa, da noi e in molti altri Paesi, da cui derivano regole scritte e non scritte, comportamenti, abitudini, educazione. L’altra parola tabù. Idee ben radicate nella nostra cultura, che la politica nata dai movimenti delle donne ha combattuto, o meglio, di cui ha mostrato la fallacia e l’inconsistenza. Idee rispetto alle quali non si può e non si deve tornare indietro. Non c’è natura dietro la violenza contro le donne, ma una lunga lunghissima storia di impunità. C’è un ordine fondato sull’esercizio della forza: un ordine che ne ha legittimato l’esercizio fino all’altro ieri – carcere per l’adulterio femminile, ius corrigendi ecc. – e che ancora l’autorizza come in Russia, dove Putin nel 2017 ha depenalizzato la violenza familiare “non grave” esercitata contro le donne e i bambini nel nome della tutela dei valori tradizionali. Il Dna non c’entra, non è questione di ormoni e asimmetria dell’apparato muscolo-scheletrico: il punto è invece la libertà, la libertà imprevista delle donne, che ha mandato in soffitta quell’ordine per affermarne uno dove la sessualità, le relazioni, la nascita e la crescita dei figli sono frutto dell’accordo – del consenso, altra parola chiave – e non dell’imposizione. Dove le famiglie, e le coppie, non funzionano come caserme, sottoposte al controllo e alla punizione, ma luoghi che ammettono il rifiuto e l’indisponibilità.
Una rivoluzione? Senza dubbio. C’è voluto tempo per chiamare la violenza per nome e perseguirla; per affrancarla dal destino e rompere nessi millenari che indicavano nella bellezza, l’avvenenza, la causa naturale di un’aggressione, scaricando sulle donne la responsabilità di evitarla fuggendo, perché nessun uomo è in grado di governare la propria natura, se provocato. «Giove la vide e folgorato la volle»: quanti miti raccontano la stessa storia? Il Dna di questa sopraffazione è nelle radici della nostra cultura, nella tradizione e nei racconti che la tramandano. Grazie all’educazione, intesa nel senso più ampio, la storia è cambiata, o almeno è in via di trasformazione: le norme che ora verranno approvate ne sono testimonianza. La natura non c’entra, gli alibi sono caduti, è tempo di archiviarli definitivamente.



