Si chiama Nowe Horyzonty (Nuovi orizzonti) il festival che da ventitre anni si tiene nella città polacca della Bassa Slesia e non potrebbe avere nome migliore perché, all’interno delle varie sezioni che lo compongono e dialogano fra loro, si pone come «contenitore» di uno sguardo sul cinema, tanto del presente quanto di momenti cardine della sua storia, inscritto nella ricerca, nelle «derive» estetiche e diegetiche che hanno generato e generano cortocircuiti espressivi esplosivi, dinamici, sorprendenti. Per offrire agli spettatori (e il festival, che termina domani, è altamente frequentato da un pubblico giovane, grazie anche all’ottimo coinvolgimento degli studenti, essendo Wroclaw importante e pulsante centro universitario) film e autori e autrici capaci di scardinare luoghi comuni nel portare sullo schermo questioni d’attualità sfuggendo a immagini pre-confezionate, liberando invece l’immaginazione.Realtà e melò si fondono in «Blackbird, Blackbird» di Elene Naveriani

ECCO, in tale contesto, Blackbird Blackbird Blackberry di Elene Naveriani (in competizione). Il suo terzo lungometraggio conferma la regista (non binaria, per definirsi usa il pronome «loro») georgiana come una delle voci emergenti più talentuose del cinema internazionale. Naveriani crea – come già nei suoi due primi lavori – dei «mondi di cinema» di pura e potente finzione che rimandano al melodramma classico per parlare di argomenti scomodi in relazione alla società del suo Paese (ma non solo). Era la condizione delle persone lgbtq+ nel precedente febbricitante Wet Sand. È quella di una donna alle soglie dei cinquant’anni, ancora vergine, e delle sue nuove scelte di vita in Blackbird Blackbird Blackberry, che di Wet Sand è l’ideale continuazione e sovrapposizione. Siamo sempre in un villaggio lontano da Tbilisi. Siamo sempre in ambienti circoscritti (qui il piccolo negozio della protagonista Etero – interpretata da una sublime Eka Chavleishvili, già in Wet Sand, il cui volto, i cui occhi sembrano riflettersi in quelli di dive del cinema classico americano -, la sua casa, la veranda di una delle vicine) da trasformare in scenografie e cromatismi della solitudine, del desiderio, della passione, del conflitto. Siamo sempre in storie di sentimenti che iniziano (tra Etero e Murman, fornitore di prodotti per il negozio) o sono già iniziati (quello appena accennato, ma fondamentale per le narrazioni di Naveriani, tra due giovani lesbiche), che vivono di sfumature e si aprono a un lieto fine mai banale che invece si ricollega ancora a una classicità rivendicata in tutta la sua sontuosa luminosità.

MUTAZIONI dei corpi e delle identità cui il festival ha dedicato la sezione «Third Eye: Non-masculine/Non-feminine» comprendente anche Kokomo City – opera prima in bianconero dell’afro-americana D. Smith, ritratto senza voyeurismi di quattro trans afro-americane lavoratrici del sesso, ma purtroppo usando uno stile aderente a un cinema americano indipendente pieno di effetti visivi sterili e fastidiosi – e Gendernauts che la tedesca Monika Treut girò nel 1999 sulla scena queer e punk della San Francisco degli anni Novanta. Mentre Vika! della polacca Agnieszka Zwiefka fa conoscere Wirginia Szmyt, nota come DJ Vika, attivista sociale e star della scena musicale di Varsavia, che a 84 anni continua a frequentare club e discoteche (ha tenuto un dj set anche una sera del festival), adorata dai giovani, icona delle manifestazioni arcobaleno, e riflette sia sul suo passato (il grande amore per il marito, i figli che non condivisero le sue scelte) sia sull’oggi e l’inevitabile avanzare dell’età dovendola accettare «guardandosi allo specchio come si è», afferma.

PERLE, infine, dagli anni Sessanta. L’immortelle (1963) di Alain Robbe-Grillet al quale il festival ha dedicato una delle retrospettive. Film che de-struttura una storia d’amore a Istanbul tra un francese e una donna misteriosa, che si esprime attraverso il punto di vista dell’uomo («Tutto è nella sua immaginazione», gli dice), che si de-compone in immagini del frammento e della ripetizione. «Immortale» è la donna senza un vero nome e la città stessa. E Belarmino (1964) di Fernando Lopes, inserito nel Focus sul Portogallo. Opera prima di un innovatore del cinema portoghese, è un documentario fuori dagli schemi sul pugile Belarmino Fragoso, un intreccio di memorie del protagonista tra palestra e vita familiare e di Lisbona tra strade affollate e locali jazz. Esempio flagrante di «nouvelles vagues».