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NUOVO CINEMA MANCUSO
Ripasso di Frankenstein
Di tutti i supereroi, è il più disgraziato. Spider-Man vola da un grattacielo all’altro, ha solo le mani un po’ appiccicose (capita al giovane Uomo Ragno, che quando se ne lamenta con lo zio si sente rispondere “ai maschi succede”). L’Incredibile Hulk diventa grosso e verde, ma solo se perde la calma. Captain America non mostra segni particolari, ma è rimasto ibernato per decenni e decenni, in futuro non si sa.
“The Toxic Avenger”, poveretto, fa proprio schifo. E’ caduto in una vasca di rifiuti radioattivi uscendone verdognolo, sfigurato, con le carni bruciate. Oltre che furioso: fare le pulizie in quella fabbrica era il suo lavoro, abbastanza di merda e malissimo pagato. E’ nel film di Macon Blair, dall’altro ieri nelle sale. E in effigie – mostro che spunta incazzato dal bidone, entrambi immersi in un sinistro color verdolino – appare sulle pagine dei siti che si occupano di cinema.
Il Vendicatore Tossico nasce in un film del 1984, quarant’anni fa. Era una creatura uscita dalla casa di produzione Troma, che aveva per motto e ragione sociale “gore, tette e risate”, dove “gore” sta per “sangue rappreso”. Ora a furia di porno le tette sono tramontate, e passati gli anni Ottanta è sparita anche la critica a quel che con formula azzeccata chiamavamo “edonismo reaganiano”.
Nel film appena uscito nelle sale, il povero spazzino che finisce nel bidone dei rifiuti è Peter Dinklage (il Lannister sfortunato e perfido di “Game of Thrones”). Ha una figlia che vuole proteggere, anche se farsi vedere da lei non è tanto raccomandabile. Ha un ceo di cui vuole vendicarsi: non si manda un poveretto armato solo di spazzolone a ripulire la vasca dei rifiuti radioattivi. I fan sfegatati della Troma dicono che il vecchio film era meglio – a essere sinceri, distinguere tra i due, se non consideriamo la fisionomia degli attori, è assai difficile.
Se invece volete passare i giorni di Halloween con un classico vero, in qualche sala italiana è tornato il classico dei classici. “Young Frankenstein” di Mel Brooks, utile anche come ripasso per prepararsi al meraviglioso e filologico “Frankenstein” di Guillermo del Toro (su Netflix dal 7 novembre). “Frankenstin”, come Gene Wilder vuole farsi chiamare per spezzare ogni catena che lo lega al celebre antenato, si lascia convincere a ricreare la vita in laboratorio. Purtroppo il gobbo aiutante “Aigor” sbaglia cervello, e gli porta quello di un certo “A. B. NORMAL” Guillermo Del Toro è fedelissimo e rispettoso, a cominciare dai ghiacci eterni dove il mostro si è rifugiato, dopo che il suo creatore lo ha destinato alla solitudine: non gli ha dato il nome e neppure una compagna. Mel Brooks è stato altrettanto fedele, volgendo in satira tutto quel che nell’originale era cupo e spaventoso.
DRACULA – L’AMORE PERDUTO
di Luc Besson, con Caleb Landry Jones, Christoph Waltz, Zoe Bleu
Non
leggete, non sapete, vi mancano i fondamentali.
Di certo non avete letto “Danse Macabre” di Stephen King, amorosa enciclopedia dell’orrore. “Dracula” è uno dei modelli originari: il non morto – questo vuol dire Nosferatu, così si chiama Dracula nel film di Werner Herzog che non voleva pagare i diritti alla vedova di Bram Stoker. King va al sodo, quando gli domandano perché il personaggio piaccia tanto: “Vi siete mai accorti che i vampiri sono paralizzati dalla vita in giù?”. Luc Besson ha trascurato il dettaglio, che ovviamente dettaglio non è. Mette in scena il suo principe Vladimir – l’attore Caleb Landry Jones, già strepitoso in “Dogman” (quello di Besson, non quello di Garrone) – con la sua sposa Mina in un grande amore sensuale. Si buttano su ogni letto a baldacchino del castello, poi arrivano i barbari (siamo in Transilvania, XV secolo). Il principe Vladimir rinnega Dio e vagherà per l’eternità, cercando la sua bella. O qualcuna che le somigli. Di secolo in secolo, arriva nella Parigi della Belle Époque. E degli scienziati positivisti che un vampiro vero non l’hanno mai visto, ma lo vorrebbero catturare a scopo di studio. Matilda De Angelis, per esempio. Incarcerata e poi fuggita, alla festa in cui si aggira il principe Vlad, sempre più malinconico. Da secoli cerca il suo perduto amore, Matilda è solo una della stessa tribù, che vuole divertirsi fino all’eternità. La residenza del conte è piena di gargoyle, al bisogno diventano guardie del corpo o servitù.
THE MASTERMIND
di Kelly Reichardt, con Josh O’Connor, Alana Haim, John Magaro, Hope Davis
Massachussetts.
Anni Settanta. I furti di opere artistiche non vanno quasi mai veloci come a Parigi. Un padre di famiglia disoccupato tenta di far qualche soldo rubando in un museo. Ha in mente il quadro, e assieme ai suoi complici progetta un piano infallibile (secondo lui). Ruberà un dipinto di Arthur Dove, per accompagnamento la regista sceglie la musica jazz di Rob Mazurek. Josh O’Connor è sempre irresistibile, solo Alice Rorhwacher è riuscita a rovinarlo in “La chimera”: ne ha fatto un ladro di resti etruschi, piuttosto depresso per un amore perduto e visionario pure – cose che restano tra gli appunti della regista, e nel film non si capiscono. Qui abbiamo invece una regista che può anche non piacere, ma il mestiere lo possiede, e ne fa un ladro d’arte improvvisato. Il genere, solitamente veloce o frenetico, viene totalmente reinventato da Reichardt. Il piano non riesce, e il film di rapina diventa studio di carattere. Con i suoi tempi, certo. Ma se uno concepisce un piano tanto scombinato poi non si rialza subito, né tenta un altro mestiere – lavapiatti magari. Esce in poche sale, e in contemporanea su MUBI. Abbiamo visto criminali più abili, ma qui l’orizzonte si allarga alla guerra del Vietnam e – vabbè – alla “deriva di un paese”. Allora e oggi, fa lo stesso. Kelly Reichardt dai suoi primi film – “Wendy and Lucy”, il femminista “Meek’s Cutoff”, l’originale western “First Cow”, dove un cuoco viaggia con un immigrato cinese e una mucca – è sempre contro.
THE UGLY STEPSISTER
di Emilie Blichfeldt, con Lea Myren, Ane Dahl Torp, Isac Calmroth, Flo Fagerli
Cenerentola
in abiti ottocenteschi, con qualche licenza femminista. Con le fiabe si può, sono durate a lungo perché ognuno le adatta, e certe scene cruente si addolciscono per i bambini più delicati (meglio: per i loro genitori, più sensibili, soprattutto se affiancati da insegnanti e psicologi). Oppure diventano splatter, o magari porno, se bisogna rivolgersi al pubblico adulto, e insistere sugli aspetti più sanguinari di una fiaba che già ne aveva qualcuno all’origine. Per esempio i piedi mozzati per entrare nella scarpetta perduta scappando dal ballo principesco (a questo si riferisce il manifesto). Qui la protagonista si chiama Elvira, ha 18 anni, viaggia in carrozza con la sorella minore Alma, e la madre che – per garantirsi un avvenire – si avvia a sposare il nobile e vecchio Otto, a sua volta padre di una figlia bella e bionda. Elvira già sospira leggendo un libriccino di poesie scritto dal principe, ovunque spuntano stallieri giovani e aitanti. La poveretta, bruttina, viene sottoposta a interventi cruenti per raddrizzare il naso, per poi provvedere gli occhi di ciglia finte, da cucirsi alle palpebre. Come dieta va avanti con acqua e limone. Poi ci sono le lezioni di ballo, di etichetta e di comportamento. Più una tenia, altrimenti detta verme solitario, per dimagrire. Intanto, con tutte queste spese, il defunto Otto ancora non è stato seppellito, e marcisce. Le intenzioni sono lodevoli, ma il film arranca, e manca totalmente di senso dell’umorismo.
CINQUE SECONDI
di Paolo Virzì, con Valerio Mastandrea, Galatéa Bellugi, Valeria Bruni Tedeschi
Valerio
Mastandrea è “accartoc ciato e vulnerabile”. Le nuove generazioni fanno paura, quindi Paolo Virzì sceglie di accarezzarle. Sintesi: siamo di fronte a un’opera sul dolore catartico. Si capisce benissimo che il recensore ha fatto tesoro delle note per la stampa, e sa per esperienza che la minima critica rivolta al regista livornese provoca reazioni vivaci – diciamo così. Intanto uno continua a chiedersi il perché di queste pompose interpretazioni per un piccolo film che sfrutta banali similitudini. La vecchia vite che potata e amorevolmente curata cresce e dà frutti. Il solitario brontolone ritirato in campagna non fa entrare in casa neppure il tecnico che dovrebbe riparare la caldaia, ma si scioglie alla vista dei ragazzi e delle ragazze, una incinta, che zappettano e concimano. Una fanciulla bionda in attesa prende freddo e si strapazza. Il solitario brontolone le allunga un golfino quando viene sera. C’è un dramma, ovvio. E viene fuori a poco a poco. Era un avvocato di successo, in uno studio dove lavora Valeria Bruni Tedeschi. Aveva una moglie, un figlio e una figlia purtroppo disabile. Un giorno li sottrae alla moglie e li porta al mare, dove succede l’incidente. La moglie e il figlio lo cancellano dalla propria vita e lui si seppellisce in campagna. Per espiare. O per stare tranquillo. Tanto scorbutico era prima, tanto si scioglie davanti alle viti fatte rinascere dai giovani. Tutti laureati, almeno in agraria. Ora che sapete, a voi il giudizio.





