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Monte dei Paschi di Siena ha rafforzato la propria offerta su Mediobanca aggiungendo una parte in contanti pari a 0,90 euro per azione, oltre a 2,533 azioni MPS per ogni azione Mediobanca. Il valore complessivo dell’operazione sfiora i 17 miliardi di euro e ha già raccolto adesioni significative, superando il 38,5 per cento del capitale, quindi oltre la soglia minima necessaria. Tra i sostenitori figurano alcuni grandi azionisti come Delfin della famiglia Del Vecchio, Caltagirone e i Benetton, mentre il governo e la Bce hanno già dato il loro via libera. L’offerta resta aperta fino all’8 settembre, con possibilità di riapertura nella seconda metà del mese.
Nonostante questo, il mercato resta freddo. I titoli di MPS e Mediobanca hanno perso terreno in Borsa, segno che la fiducia degli investitori è scarsa. A pesare sono soprattutto i dubbi sulla logica industriale dell’operazione. Mediobanca è forte nell’investment banking e nella gestione patrimoniale, mentre MPS resta legata al retail e deve ancora dimostrare di aver consolidato il proprio risanamento. Più che sinergie, gli operatori vedono complessità e costi di integrazione, con il rischio di dover affrontare licenziamenti, inefficienze e un aumento del costo del finanziamento che potrebbe ridurre i benefici previsti. Lo stesso consiglio di amministrazione di Mediobanca ha respinto l’offerta, definendola inadeguata e priva di una strategia convincente.
Secondo MPS, invece, l’operazione porterebbe sinergie per circa 700 milioni di euro l’anno e vantaggi fiscali stimati in 300 milioni, con un ritorno sull’investimento atteso al 13 per cento entro il 2027. I numeri del secondo trimestre, con utili sopra le attese pari a 479 milioni di euro e un indice di redditività vicino al 20 per cento, sembrano dare forza a questa visione, confermando l’immagine di una banca più solida e competitiva. Ma la maggioranza degli analisti si mantiene prudente: solo pochi, come Deutsche Bank, parlano di un’opportunità di creazione di valore, mentre altri vedono più rischi che benefici. Chi guarda con favore all’operazione sottolinea la possibilità di creare un gruppo di peso europeo, capace di unire credito al consumo, servizi di investimento e gestione dei patrimoni, con sinergie tali da rafforzare il sistema bancario nazionale. Molti altri osservatori però non condividono questa visione: per Equita e per diversi broker internazionali, i rischi di integrazione sono troppo alti e la mossa appare dettata più da logiche politiche che da una vera strategia industriale. La distanza tra un istituto retail come MPS e una banca specializzata come Mediobanca rende complessa la fusione, con la prospettiva di costi rilevanti e benefici più incerti di quanto dichiarato. Inoltre, i dati di Borsa non incoraggiano: i titoli delle due banche, invece di crescere come accadrebbe in presenza di un’operazione credibile, hanno perso valore, confermando lo scetticismo degli investitori.
MPS–Mediobanca: un terzo polo tra ambizione politica e dubbi del mercato
L’idea di un “terzo polo bancario italiano” nasce dal desiderio di rafforzare il sistema finanziario nazionale, accanto a Intesa Sanpaolo e UniCredit, creando un soggetto capace di sostenere famiglie e imprese e di giocare un ruolo europeo. È un progetto che fa leva sull’orgoglio nazionale e che trova il pieno sostegno del governo, interessato a consolidare un gruppo a controllo pubblico che possa bilanciare le scelte dei grandi colossi privati. Non a caso la Bce ha dato il via libera, leggendo l’operazione come un passo verso maggiore stabilità del settore.
Tuttavia, dietro questa narrativa resta forte l’impronta politica. La fusione tra MPS e Mediobanca viene presentata come inevitabile, ma il mercato non ne percepisce la necessità. Dal punto di vista industriale le due banche non hanno una complementarità naturale, e gli investitori temono che la creazione del nuovo polo serva più a soddisfare un obiettivo di politica economica che a generare valore. In assenza di un piano industriale chiaro, il rischio è che l’operazione resti un contenitore vuoto, sorretto da capitali pubblici e dalle pressioni di grandi azionisti, ma senza una direzione strategica capace di convincere il mercato.
Non è la prima volta che in Italia si parla di “campioni nazionali”: lo stesso approccio è stato tentato nel settore energetico con le grandi utility, o in passato con la fusione tra Unicredit e Capitalia. In più di un caso l’ambizione politica non ha coinciso con una creazione reale di valore per gli azionisti, perché l’integrazione si è rivelata costosa e lunga. È questo il rischio che molti analisti intravedono anche oggi: che l’operazione venga realizzata per volontà politica, ma senza basi industriali adeguate.
La distanza tra politica e finanza emerge nei prezzi di Borsa: mentre il governo insiste sul valore dell’operazione, gli investitori mostrano diffidenza, segnalando che senza basi economiche solide l’ambizione di costruire un “terzo polo” rischia di restare uno slogan più che una realtà. Molto dipenderà dalla capacità di MPS di presentare un piano industriale credibile, in grado di dare sostanza a un progetto che, al momento, convince più la politica che i mercati.