«Eternità e morte insieme mi minacciano: / nessuna delle due conosco, / nessuna delle due conoscerò». Questo epigramma del 1974 – tolto dal suo primo libro, Le mie poesie non cambieranno il mondo – suona molto diversamente ora che Patrizia Cavalli se n’è andata, a settantacinque anni, a Roma. Eppure si potrebbe cedere alla tentazione di vedere, nel giro breve di questi tre versi, gli emblemi fondamentali di un’intera parabola, di un’intera «vita meravigliosa» – questo il titolo della sua ultima raccolta, pubblicata nel 2020 – consacrata alla poesia: un’orgogliosa e sfrontata autosufficienza, e insieme un ininterrotto colloquio con potenze intime e oscure. Cavalli si è sempre trovata a scrivere come avvertendo una specie di costante senso della Fine, come se l’io che si muove nelle sue liriche non fosse il protagonista di una qualsiasi esistenza, ma di un infinito stato di assedio. Un assedio entro il quale chi scrive può essere, di volta in volta, la vittima o il carnefice, l’assalitore o l’assalito: di un amore, per esempio, quest’io poteva essere la «balia mite e pensosa» oppure la silenziosa rovina («Poi d’improvviso dico, ma solo / tra me e me: E se l’ammazzo?»: così in una lirica di Sempre aperto teatro, 1999).

È UNA CONDIZIONE decisiva, un’ambivalenza di fondo che è ben sintetizzata, per esempio, in uno dei suoi risultati più interessanti, L’io singolare proprio mio (1992), nel quale la proclamazione di sé stessa come un «esempio qualunque della specie» o un semplice «io grammaticale» non riesce a nascondere del tutto il proprio radicatissimo narcisismo, l’attitudine a coltivare un irrinunciabile desiderio di assolutezza.
Nonostante le attenzioni riservatele, da subito, da parte di lettori importanti (fra i primi a tenerla a battesimo è stato Cesare Garboli, e poi soprattutto Elsa Morante, come testimonia la dedica che accompagna il suo libro d’esordio), resta difficile trovare una collocazione sicura per Cavalli: per questa voce che pretende di inghiottire la realtà, di essere Tutto, compreso il proprio opposto («La scena è mia, questo teatro è mio, / io sono la platea, sono il foyer, / ho questo ben di dio, è tutto mio»). Difficile ricostruirne genealogia e compagni di strada, forse anche più complicato trovare chi possa proseguire il suo stesso percorso.

Se la linea vincente della lirica moderna e contemporanea si caratterizza come un discorso sulla Perdita, sull’impossibilità di colmare mancanze e desideri di un io per eccellenza sconfitto, allora la scrittura di Patrizia Cavalli si configura anche come una splendida eccezione, una maniera molto diversa di cucire mondo esterno e vita interiore attraverso le parole della poesia. E magari di agire, su quella vita interiore, come una esilissima ma pur sempre salvifica terapia. Certo, anche Cavalli conosce la frustrazione e la ferita, ha coscienza della «dolce ingiustizia / che mi legava al mondo». Anche lei ha sopportato a lungo «l’infelice e scomodo bagaglio della realtà», come lo ha chiamato in una pagina di Con passi giapponesi, il libro di prose uscito solo nel 2019, un frutto tardo e sorprendente della sua vitalissima vena, oltre che una miniera d’oro per chi voglia entrare nei labirinti della sua psiche (come negli intensi «Ricordi di infanzia e di adolescenza», in cui campeggia l’ombra dolceamara della madre).

MA CAVALLI resta comunque fra i pochi esemplari di una specie rara, quella di chi riesce, in versi, a dire anche qualche barlume di felicità: «Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente» (è un passaggio del già citato Vita meravigliosa, una raccolta che nel solo titolo porta con sé un’inclinazione sfacciatamente esclamativa e nemmeno una promessa, ma addirittura una constatazione di pienezza). È vero, questa voce è perlopiù immersa nel quotidiano, non si mostra troppo disponibile all’invenzione linguistica o alla trovata rara (il suo è forse uno dei tentativi poetici più efficaci nel costruire versi senza abbandonare l’orizzonte comunitario, la lingua «di tutti» e la sua comprensibilità).

E tuttavia c’è, nel cuore di questa esperienza di scrittura, una fiducia speciale nella parola della poesia. Lo ammette lei stessa, nel suo già ricordato libro di prose: «Si può parlare in tanti modi, a seconda della situazione o della persona la parola detta può avere molte sfumature, il suo significato non è rigido e univoco . Nella parola scritta, invece, ci si rivela agli altri, ci si mette nelle mani degli altri. È un pensiero che manifestandosi non ti appartiene più. Scrivo poesie perché nella poesia c’è più ambiguità che nella prosa (NON È VERO), ma nella poesia resta sempre un mistero grande o piccolo, resta cioè una zona oscura che si sottrae al giudizio logico».

LA POESIA implica sempre un aldilà-della-ragione, per esempio grazie alla levità impalpabile della rima, vissuta come uno stato di illogica e proprio per questo fertile alterazione del discorso: «Ah, ubriachezza eroica e modesta, / dove si può ogni cosa, ma non vera, / necessità inutile che appresta /la frase bella disperata e altera. / Andrò, farò, dichiarerò rovine, / e mi sprofondo a cuccia tra le rime».

Basterà rileggere anche la sola lirica appena trascritta per accorgersi di quello che resta forse il nodo centrale della poesia di Patrizia Cavalli: il dubbio su come si possa scrivere versi e esporsi all’altro in maniera trasparente, nella difficile convivenza di immaginazione e autenticità, all’insegna di una poesia onesta.
E davvero quella di Cavalli è, come per un suo lontanissimo progenitore di nome Saba, «ardita sincerità», uno stato di grazia nel quale se un «verbo» è «vero» si sente «correr il sangue alla salvezza», ci si sente al sicuro. E sia pure una salvezza incerta, fragile come un canto naturale: «E poi il ritorno e l’usignolo, / canta canta sullo stesso albero, / non era solo, vive, dura, / si moltiplica, ma quanto dura / un usignolo?».