Il rapporto fra voto popolare e vertice del potere esecutivo è questione cruciale in qualsiasi regime parlamentare democratico. Lo è da un punto di vista storico, poiché il modello britannico, che del parlamentarismo è matrice prima, è riuscito grazie al sistema elettorale e al formato bipartitico a legare di fatto la scelta del Premier ai risultati elettorali fin dai tardi anni Sessanta del diciannovesimo secolo. Sì, avete letto bene: centocinquant’anni fa. E lo è da un punto di vista teorico: essendo il Primo Ministro il garante dell’indirizzo politico di un Paese, è ben evidente che, più lo si isola dal momento elettorale, meno democratica sarà una democrazia.
Tuttavia, le costituzioni europee del dopoguerra – la francese del 1946, l’italiana del 1948, la tedesca del 1949 – cercarono di evitare che il rapporto fra elettorato e governo fosse troppo diretto, immaginando che fra i due dovesse frapporsi, in parlamento, la mediazione sostanziale dei partiti politici. Le esperienze autoritarie e totalitarie degli anni Venti e Trenta, il collasso drammatico della Repubblica di Weimar, la presenza della sfida comunista suggerivano di procedere con grande cautela. Era poi la stagione d’oro dei partiti d’integrazione di massa: ben organizzati, dotati di visioni del mondo forti e profonde radici sociali, avevano una presa vigorosa sugli elettori che per parte loro, esausti dell’ubriacatura di politica dei trent’anni precedenti, parevano ben contenti di affidarsi alla loro mediazione.
Il compromesso postbellico prese a scricchiolare già negli anni Sessanta del Novecento, quando i meccanismi di mediazione cominciarono a essere delegittimati e i cittadini pretesero un maggior coinvolgimento nel governo delle istituzioni. Il Movimento 5 stelle delle origini altro non è, da questo punto di vista, che un’estrema propaggine del Sessantotto. La Francia aveva anticipato la crisi di quel compromesso dotandosi di una costituzione semipresidenzialista già nel 1958 e poi, quattro anni dopo, introducendo l’elezione diretta del Capo dello Stato. La Repubblica di Bonn era maturata, nel frattempo: il sistema partitico si era semplificato, i governi erano stabili, le diverse forze politiche potevano alternarsi al potere, il rapporto fra voto popolare e cancelliere, pur non essendo diretto, era forte. Quando, nel 1982, i liberali decisero di abbandonare i socialdemocratici per formare un governo coi democristiani di Helmut Kohl, si sentì il bisogno di legittimare il “ribaltone” con un passaggio elettorale.
E l’Italia? Malgrado l’Italia fosse pienamente immersa nella temperie spirituale della disintermediazione, a partire dagli anni Sessanta del Novecento da noi la mediazione partitica non soltanto non è venuta meno, ma si è rafforzata. Sollevando col tempo, e in particolare dalla fine del decennio successivo, dopo la conclusione della solidarietà nazionale, critiche sempre più aspre, diffuse e trasversali. Nella richiesta di maggior voce in capitolo da parte degli elettori e nell’incapacità del sistema politico repubblicano di soddisfare quella richiesta affondano le radici i ripetuti e fallimentari tentativi di modifica costituzionale, dalla commissione Bozzi del 1983 al referendum Renzi del 2016; il montare dell’antipolitica; le riforme dei sistemi elettorali comunale e regionale del 1993 e 1995; Tangentopoli e il crollo dei partiti di governo nel 1992-1993; la formazione nel 1994 di un assetto bipolare che per la prima volta nella storia d’Italia consentiva agli elettori di mandar via un governo in carica e scegliersi, sebbene indirettamente, il Presidente del Consiglio, e che è collassato però nel 2011.
Negli ultimi dieci anni, con l’avvento della stagione cosiddetta populista, il clima storico è cambiato di nuovo. Il visibile affaticamento delle democrazie avanzate ha spostato l’attenzione dalla rappresentanza della volontà popolare al meccanismo di contrappesi e garanzie che la contiene e disciplina. Eppure la storia più profonda che ho raccontato ci lascia almeno tre insegnamenti, collegati l’uno con l’altro, che sono ancora validi. Gli elettori contemporanei, innanzitutto, sono mal disposti ad accettare che la scelta del vertice dell’esecutivo non tocchi a loro ma sia mediata dai partiti. Ed è difficile dar loro torto: una democrazia nella quale l’elettore voti senza sapere per quale esecutivo stia votando resta gravemente imperfetta. Il passaggio avvenuto nella scorsa legislatura dal primo al secondo governo Conte e al governo Draghi, con tre maggioranze differenti, è stato perfettamente legittimo in termini formali ma, alla luce dei valori democratici, resta uno scandalo.
Tanto più – secondo insegnamento – che i partiti hanno perduto da decenni le solide radici sociali che avevano all’alba della Repubblica. La mediazione dei partiti era forse accettabile quando erano forti, ma non lo è oggi che sono fragilissimi. Né si può dire che siano stati indeboliti dall’eccesso di leadership o di disintermediazione. È vero il contrario, è stata la crisi dei partiti a render necessario disintermediare e portare i leader in primo piano. Quanti oggi sostengono un assetto costituzionale fondato sulla mediazione politica possono farlo solo a patto di chiudere gli occhi davanti all’appassire irrimediabile delle strutture che possono garantire quella mediazione. E ci sarebbe anche da chiedersi, per altro, dove fossero molti di costoro quando quelle strutture venivano demolite dal populismo giudiziario.
Il terzo insegnamento è che il cattivo funzionamento dell’assetto costituzionale incentrato sulla mediazione del parlamento e dei partiti non è generato dall’avvento dei movimenti populisti né dalla sfiducia dei cittadini nelle istituzioni. Anche in questo caso è vero il contrario: sfiducia, antipolitica, populismo sono conseguenze e non cause di un sistema dal quale gli elettori non si sentono pienamente valorizzati. Nell’ultimo decennio abbiamo avuto due governi tecnici, privi per definizione di un rapporto politico forte con l’elettorato. Bene: dopo il primo l’astensionismo è cresciuto del 5% – l’aumento maggiore fino ad allora – e si è affermato il Movimento 5 stelle; dopo il secondo, l’astensionismo è montato del 9% e ha vinto Giorgia Meloni. Voler rendere più stretto il collegamento fra gli elettori e il governo, allora, non sembra più tanto populismo. Quanto, piuttosto, l’unico antidoto al populismo.