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Lo affascinano «il linguaggio, la costruzione di significato» e al contempo, ammette, la realtà è talmente complessa che una sola forma di espressione non basta. Così l’autore americano Percival Everett, premio Pulitzer lo scorso 6 maggio per il romanzo James (La nave di Teseo), da sempre sperimenta: attraverso toni, lessico e codici nella narrativa («Sto ancora cercando di scrivere un romanzo astratto»), ma anche confrontandosi con altre arti. Dipinge fin dai vent’anni («principalmente con il coltello, non amo i pennelli»), suona («la chitarra e il mandolino», che ripara anche) e ha appena consegnato a Steven Spielberg la sceneggiatura per il film tratto da James («la mia prima esperienza di scrittura cinematografica»). Quest’anno sarà uno dei protagonisti della Milanesiana ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Parteciperà a un incontro l’11 giugno e inaugurerà la sua prima mostra in Italia, Logica predicativa, dal 12 giugno alla Carlocinque Gallery di Milano: 22 opere di cui 15 realizzate nel 2025 e mai esposte finora.
A «la Lettura» parla alla vigilia dell’arrivo in Italia.
Che effetto le ha fatto vincere il Pulitzer? «James» aveva già ottenuto premi importanti, tra cui il National Book Award, ed era stato finalista al Booker Prize.
«Credo che il libro abbia intercettato qualcosa nella cultura di oggi che spinge a leggerlo, e questo mi fa piacere. La parte più emozionante della narrativa è che significa qualcosa di diverso per ciascuno, e ciò che intendevo io come autore diventa irrilevante».
Il romanzo riscrive «Le avventure di Huckleberry Finn» (1884) di Mark Twain dal punto di vista dello schiavo Jim. Da dove nasce l’idea?
«Vorrei poter dire che ci ho lavorato molto… ma non è così. Stavo giocando a tennis e ci ho pensato. Ovviamente stavo già riflettendo su alcuni concetti in modo latente. Ad esempio, l’insoddisfazione per come sono state rappresentate al cinema e in tv le persone schiave».
Alla fine di «James» lei ringrazia Mark Twain. Alcune scuole americane lo hanno bandito e ci sono editori che ripuliscono «Huckleberry Finn» della «N-word», la parola «negro», che lei stesso usa nel libro.
«Twain ha scritto il romanzo nella sua epoca. Il protagonista è un ragazzo bianco, non poteva assumere lo spazio culturale e psicologico di un adulto nero. Questo è diventato il mio compito. E lo faccio con 140 anni in più di cosiddetta “evoluzione” e storia umana. Non ho corretto Twain ma semplicemente creato la voce di un personaggio che lui non poteva pienamente abitare. Quanto alla N-word, avere paura di una parola è ridicolo. In determinati contesti storici, è necessario usare i termini accurati del periodo in questione».
Secondo alcuni commentatori il politicamente corretto è diventato eccessivo, tanto da danneggiare anche i democratici americani alle ultime presidenziali.
«Il politically correct è una costruzione dei fascisti di destra per minare il desiderio di equità dei liberal americani. L’hanno inventata per trasformare la ricerca di giustizia nel linguaggio in qualcosa di estremista. Hanno creato un mostro, e sono loro che lo enfatizzano».
La giuria del Booker scrisse che «James» esamina «la disumanizzazione della schiavitù e le istituzioni che l’hanno resa possibile»: temi che «risuonano con le lotte attuali contro l’oppressione sistemica e l’eredità della schiavitù». Come si esplicita quest’eredità?
«Il fatto che una popolazione sia stata privata per tanto tempo del voto e della possibilità di avere delle proprietà, ha fatto sì che, anche una volta liberata, si sia prodotta una povertà sistemica difficile da superare. L’America delle leggi Jim Crow (emanate tra il 1876 e il 1965, ndr) impedì alle persone di discendenza africana di partecipare all’economia e questo ha effetti tuttora».
Gli Usa non hanno fatto i conti con la schiavitù?
«No, non li hanno fatti. La storia americana è stata troppo spesso insegnata come una mitologia. Si dice che la schiavitù è qualcosa di negativo, triste, ma non si è mai cercato, ad esempio, di spiegare quanto fosse radicata nell’economia. Venivano persino concessi mutui sugli schiavi e molti, al Nord e al Sud, ne hanno tratto vantaggio. Serve parlarne onestamente, senza un’agenda. Non si tratta di fare emergere colpe per condannare qualcuno, ma di capire cosa è successo e perché».
Anche i suoi antenati conobbero la schiavitù.
«La mia bisnonna paterna è stata una persona schiava per parte della vita. Ma so poco della mia famiglia».
Ha mai vissuto episodi di razzismo?
«Certo. Di solito non parlo molto di me stesso, ma posso garantire che quasi ogni uomo di carnagione scura in questo Paese a un certo punto è stato fermato dalla polizia senza motivo. Non solo: un secolo fa Woodrow Wilson istituì la pratica di includere una foto nelle domande di lavoro per il governo federale, in modo che si potesse di fatto escludere i neri. Oggi è stato dimostrato che chi ha nomi afroamericani ha meno probabilità di ottenere un impiego. Un tipo di razzismo insidioso. Spesso chi lo pratica non ne è consapevole. Se non comprendi di essere il prodotto di una cultura razzista, agisci secondo quei principi senza neppure accorgertene».
A proposito di polizia, è cambiato qualcosa dopo l’omicidio di George Floyd nel 2020?
«Il numero di sparatorie degli agenti contro uomini dalla carnagione scura non è diminuito. Ho apprezzato i giovani che hanno protestato in quel periodo, ma l’America è la “nazione dei dieci giorni”: ci si indigna per questo lasso di tempo poi tutto torna alla normalità».
Come si inserisce, nel percorso che sta delineando, l’elezione nel 2008 di Barack Obama, primo presidente afroamericano?
«L’America è un Paese grande, pochi voti in più o in meno cambiano completamente l’esito del voto in uno Stato. Hillary Clinton e Kamala Harris, ad esempio, sono state forse le candidate più preparate per la presidenza, eppure non hanno vinto. In questo caso, anche perché sono donne, e l’America ha ancora paura delle donne intelligenti e competenti. Se non riconosciamo questi problemi — razzismo, sessismo e, aggiungo, il classismo —, saremo condannati a conviverci a lungo».
Nel libro Jim compie anche un percorso dentro sé stesso, assumendo alla fine il nome James e riconoscendo la sua rabbia. Lei l’ha mai provata?
«Certo, ma ormai si è trasformata in qualcosa di più ironico. Poi, è complicato, perché sì, c’è la rabbia, ma è diretta verso una cultura, non verso gli individui. Mi piacerebbe vivere in una società in cui le persone si sforzassero di capirsi a vicenda, invece di scegliere la via più facile e ignorare i problemi degli altri».
Cosa si può fare?
«La risposta a quasi tutto è l’istruzione. Come diceva Walt Whitman, se vuoi una società migliore, crea persone migliori. Ed è esattamente ciò che dobbiamo fare».
Cosa pensa delle mosse di Trump contro Harvard?
«Trump cerca di colpire proprio l’istruzione. Non vuole una popolazione che pensa criticamente. Lui non ha un’ideologia reale, gli interessa il denaro, ed è vendicativo, infantile. Anche per questo attacca Harvard: perché sa perfettamente che non sarebbe mai stato ammesso. Puoi diventare ricco, ma non colto in un istante».
Lei insegna alla University of Southern California. Gli studenti stranieri sono nel mirino anche da voi?
«Non ci hanno ancora colpiti direttamente, ma tutte le università sono in difficoltà. I nostri allievi internazionali sono spaventati. È una situazione tremenda, anti-intellettuale, una forma di xenofobia inimmaginabile».
A Milano esporrà i suoi quadri. Quando e perché ha iniziato a dipingere?
«Da più tempo di quanto scrivo. A vent’anni suonavo jazz per pagarmi gli studi e da sempre associavo la musica alla pittura. Ho iniziato a dipingere per “vedere” la musica».
Come si dipinge per vedere la musica?
«Creo quadri astratti, anche la musica lo è: non puoi toccarla, esiste nell’aria. Invece, da scrittore, per quanto cerchi costantemente di rendere la mia produzione astratta, tutto ciò che creo è rappresentativo, è concreto. Quindi oggi la pittura è anche una reazione a questo. Lavorare a un romanzo, poi, significa passare anni nella propria testa: mi serve ricordare che esiste la fisicità».
Quali tecniche usa nella pittura?
«Dipingo con un coltello. Mi sento a mio agio con questo strumento e il colore denso che sposto sulla tela, non mi piacciono i pennelli. Inizialmente creavo immagini piuttosto letterali, poi via via cancellavo per renderle astratte. Oggi parto da un concetto, faccio degli schizzi e vado dove mi porta la pittura. A volte lavoro su un punto e, prima che me ne renda conto, perdo il controllo dell’intera opera e non riesco a recuperarla».
Lei ha studiato Logica all’università e la sua mostra s’intitola «Logica predicativa».
«Gran parte di ciò che penso dell’arte deriva dalla mia comprensione della logica e del linguaggio. Rispetto alla logica proposizionale, che si basa su singole affermazioni, la logica predicativa si basa su osservazioni legate a ciò che vediamo nel mondo. Desidero che i miei dipinti non riflettano singole affermazioni e convinzioni, ma relazioni tra idee, stati dell’essere».
La copertina di questo numero de «la Lettura» è un suo dipinto, «Redaction No. 15», e fa parte di una serie. Di che cosa si tratta?
«Di fronte a una storia, non ne otteniamo mai la versione completa: viene sempre “redatta”, perché la interpretiamo, la rielaboriamo. Lo stesso vale per la visione. Ma nonostante le omissioni, creiamo significato. È ciò che volevo esplorare con questa serie: quale significato, nonostante ciò che non siamo autorizzati a vedere?».
Lei usa anche il collage.
«Spesso creo dipinti che poi fotografo, taglio gli scatti e li incorporo in opere più grandi. C’è di mezzo, nuovamente, la costruzione del significato. Ed è come affrontare la memoria: non ricordiamo davvero gli eventi, ricordiamo i ricordi. E ogni volta che lo facciamo, li ricostruiamo. È così che vedo i miei dipinti».
Interviene molto sul testo anche quando scrive?
«Inizio scrivendo a mano, preferibilmente a matita. Una ventina di pagine, poi le trasferisco nel pc. Sono un editor aggressivo di me stesso: le cose cambiano continuamente, risistemo, cambiano di nuovo. Scrivo a mano proprio perché non c’è il tasto “cancella”. Se non mi piace una frase, la barro, ma resta e posso recuperarla».
Sperimenta molti linguaggi ma non quello dei social network. Non ha account. Come mai?
«Tutto ciò che ho sentito dire li fa sembrare un’impresa solipsistica, se non voyeuristica. E sembra che gli utenti passino molto più tempo lì che a creare».
Le diverse forme d’arte si influenzano l’una con l’altra nella sua carriera?
«Assolutamente. Anche la musica è una ricerca di linguaggio. La mia prosa poi ha un ritmo sincopato che non creo intenzionalmente ma c’è. E anche la mia produzione visiva influenza la scrittura, per quanto c’è un solo libro in cui faccio esplicito riferimento al colore: Quanto blu (2017), in cui il protagonista è un pittore».
Le somiglia?
«Con tutti i miei personaggi ho qualcosa in comune, ma non creo mai un alter ego autobiografico. Neppure in Cancellazione (2001), dove il protagonista è sorprendentemente simile a me. Poi ci sono altre influenze: mio nonno e mio padre si riflettono in alcuni personaggi maschili, mia sorella in alcuni femminili».
La realtà è così complessa che un solo linguaggio non basta?
«Credo sia così. D’altra parte, letteratura, pittura e musica sono nate dal bisogno di dare senso al mondo».
Lei lo trova?
«Occasionalmente».
Che linguaggio serve per narrare l’era di Trump?
«Piuttosto semplice, e poco interessante. Non scriverei sull’attuale presidente. Il difficile è capire perché alcuni ne siano stati sedotti. Ma in fondo l’abbiamo già visto. Nel 1933 in Germania, ad esempio. Nulla di nuovo».
Nutre ancora speranza negli Stati Uniti di oggi?
«Le persone non sono stupide ma manipolabili. E non so quanto durerà questa ingenuità. Ma ho due figli, devo essere fiducioso. E poi ci sono i miei studenti: li osservo e vedo tracce d’intelligenza nella nostra cultura, magari saranno loro a cambiare le cose».
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