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È andata in scena al Transart di Bolzano la prima assoluta di ‘La mort de la mer’. Ispirata alle fasi lunari, porta le Casady fuori dai confini della canzone, verso una sintesi piena d’immaginazione di teatro, musica, danza
Vent’anni fa, quando Bianca e Sierra Casady si guadagnarono l’attenzione della stampa più snob e del pubblico più ostinato con i primi due dischi a nome CocoRosie — La maison de mon rêve (2004) e Noah’s Ark (2005) — non era soltanto la musica a colpire, ma tutto l’impianto scenico. I dischi sembravano quasi dei pretesti o meglio dei punti di partenza per immaginare e costruire mondi. I concerti delle CocoRosie somigliavano a teatri in miniatura, a bizzarri cabinet of curiosities dove la canzone si scioglieva nel rituale, nella coreografia di costumi, luci e relitti emotivi. La mort de la mer, presentata in prima assoluta al Transart25 di Bolzano, sembra nascere da quella stessa inclinazione, ma con l’ambizione e la spietatezza di chi vuole partire dallo spazio codificato del concerto indie per costruire un’opera quasi priva di confini.
Inserita nel cartellone di Transart, festival internazionale di cultura contemporanea che da oltre vent’anni porta in Alto Adige performance, musica, teatro e arti visive in spazi inusuali, trasformando fabbriche, capannoni e luoghi non convenzionali in palcoscenici (e che dello spettacolo è anche co-produttore), l’opera appare coerente con quel percorso multidisciplinare che le sorelle Casady hanno costruito negli anni, proseguendo un progetto che ha sempre oscillato fra musica, performance, videoarte e teatro d’avanguardia. Qui la musica resta intoccabile — la colonna vertebrale sonora è affidata a figure come Marc Chouarain (theremin), Douglas Wieselman (polistrumentista e compositore della scena avant-jazz americana) e il violinista Simone Draetta — ma tutto attorno la scena si fa mondo vivo, abitato da presenze che rendono l’esperienza totale.

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Lo spettacolo, per capirci, è immersivo. L’ex Masten non ha una platea tradizionale. Il pubblico si muove liberamente in questo capannone gigantesco con i corpi degli attori che dialogano con quelli degli spettatori, oggetti di scena, installazioni e video design (firmato da Corentin JPM Leven). Lo spazio è organizzato proprio per far evaporare il confine fra osservatore e osservato. «Ho chiesto uno spazio industriale» dice Bianca «e poi ho capito che non potevo avere posti a sedere. Allora ho iniziato ad adattare il pezzo: la libertà del pubblico è parte della coreografia». Lo sguardo non è direzionato, la partecipazione è anche fisica e si dissolve la gerarchia spettatore-performer.
L’ibridazione di tradizioni è uno dei punti di forza dell’operazione: accanto alle Casady, uno dei centri dell’opera è la performance di Ichihara Akihito, danzatore giapponese e interprete di riferimento del Butoh contemporaneo. Bianca racconta di avere studiato Butoh da qualche anno e di essere stata profondamente toccata dalla purezza e dalla densità di quel corpo che sembra usare un’altra grammatica. L’incontro è felice: «Ho fatto un workshop con lui a New York» racconta Bianca «e mi sono sentita subito coinvolta a livello profondo. Il suo modo di essere nel pezzo ha superato ogni aspettativa». A completare il cast scenico-sonoro sono l’attrice Viola Marietti — che in questa versione interpreta l’Archivista, figura chiave che mescola recitazione live e registrazioni — e la voce registrata in tedesco di Christopher Nell.

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Dalla conversazione con Bianca emergono due ossessioni: la denuncia della macchina dell’informazione e il fascino, al tempo stesso critico e morboso, per le immagini di propaganda. «Durante il lockdown ho iniziato a lavorare con vecchie riviste della Seconda guerra mondiale e ho capito quanto basti un’immagine e una parola per creare propaganda». Da quella pratica di collage è nato il materiale visivo che permea lo spettacolo. Manifesti autentici ma attraverso la giustapposizione e il collage diventano al tempo stesso veri e falsi, slogan che disturbano, headline che svelano più di quanto celino. È questo lavoro sul falso e l’archivio che dà al testo una carica politica sottile, mai didascalica.
«Non voglio essere un intrattenitrice», dice Bianca con nettezza, «preferisco la danza alla musica; la musica è, per me, un mezzo per costruire corpi e visioni».
La mort de la mer appare così come l’esito — e insieme l’apertura — di un progetto che finalmente trova nello spazio performativo la libertà di espandersi oltre i codici prestabiliti. Le CocoRosie non cambiano pelle, si liberano dei registri della forma canzone e inventano una forma che è rito, collage, cinema e danza. È il ritorno di due sorelle che hanno saputo trasformare la marginalità in metodo, la stranezza in grammatica. Un’opera che chiede tempo, attenzione e la disponibilità a lasciarsi coinvolgere.