L’artista francese racconta in anteprima il nuovo progetto per Punta della Dogana, a Venezia Un percorso di interazione tra la vita e le macchine
Dario Pappalardo
VENEZIA
«Gli oggetti sono troppo definiti per me. Non è quello che voglio. Mi interessa creare situazioni imprevedibili». Pierre Huyghe sorride, seduto al tavolo; l’acqua della laguna che si intravede dalla porta a vetri alle spalle gli fa da sfondo. A due passi, stanno allestendo la sua mostra più ambiziosa. Siamo a Venezia, Punta della Dogana, sede della Pinault Collection. Questo è il set diLiminal(a cura di Anne Stenne, dal 17 marzo al 24 novembre): qui l’artista francese (Parigi, 1962), ormai trapiantato in Cile, porta alle estreme conseguenze la sua ricerca. Dove l’arte è uno strumento per costruire stati transitori, mondi a metà tra naturale e artificiale, ecosistemi in cui ogni specie ha la stessa dignità.
E lo spettatore si muove come un turista per caso, destinato a modificare il contesto con la sua sola presenza. O a esserne lui stesso modificato. L’elemento imponderabile risulta l’ingrediente fondamentale. Come le api che costruiscono l’alveare su una scultura installata nel 2012 a Kassel, durante Documenta, inUntilled: il progetto en plein air attraverso cui Huyghe indagava processi organici e cicli di vita che interagiscono con e nonostante l’apporto dell’uomo.
Il risultato finale non è interessante per lui. Lo è, più ancora, mettere in crisi i paradigmi come la definizione di “umano”. Nel grande racconto che si dispiega nelle sale buie diLiminal, ci si imbatte in forme vuote, in entità non umane che, provviste di sensori, reagiscono ai gesti e alla presenza dei visitatori che arriveranno. Ci saranno cervelli sintetici e l’Intelligenza Artificiale sussurrerànuove lingue mai udite prima. Il percorso si evolverà con il tempo, restituendo quel senso del weird,dello strano e dell’inquietante, teorizzato da Mark Fisher, che Huyghe ama fare suo.
Dov’è l’umano nella sua mostra? L’umano è ormai sopravvalutato?
«No, direi di no, oggi c’è una tendenza a distruggere questo concetto. Prima di tutto, però, dobbiamo capire che cosa diciamo quando parliamo di “umano”. Lo intendiamo in senso biologico? Ci stiamo riferendo a Homo Sapiens?
Quello che mettiamo sotto l’etichetta di umano è una costruzione. Tutti portiamo una maschera costruita di umanità, che può variare a seconda delle prospettive. In Amazzonia e a Londra l’umano sono due cose diverse. E se rimuoviamo lamaschera che cosa resta? Non penso sia possibile, ma questa è la domanda che mi interessa».
Lei preferisce realizzare situazioni, più che opere-oggetto.
«Ognuno difende il suo territorio perché non sa fare altro (ride).Gli oggetti sono troppo statici per quello che mi riguarda. Mi interessa la relazione tra soggetto e oggetto, dare all’oggetto un principio di volontà, adoperando la tecnologia. Le situazioni che creo generano incontri tra entità viventi, umane e non, piante, animali, ma anche artificiali. Il risultato non è qualcosa di prestabilito, ma una dinamica che può risultare imprevedibile».
“Liminal”, il nome di una sua nuova opera e il titolo stesso della mostra, indica uno stato di soglia.
«È il non trovarsi né su una riva, né su un’altra del fiume. È un passaggio. Si tratta di uno stato fluttuante, anche se questo forse non è l’aggettivo giusto. Il lavoro che porta lo stesso nome è una simulazione: è una forma umana che non ha volto, né parola. Quella forma si muove su una superficie piana e, attraverso un cervello sintetico, raccoglie informazioni dall’esterno, reagisce alla luce e agli stimoli che provengono dall’ambiente in cui è collocata. È un’oggettività incorporea alimentata dall’Intelligenza Artificiale. Dopo aver progettato quest’opera, ho letto Lo spopolatore di Samuel Beckett, che racconta di una condizione umana estrema: i personaggi si trovano in un cilindro largo 50 metri, in un limbo, in una geografia mentale che mi ha ricordato Liminal ».
Lei non sembra spaventato dall’Intelligenza Artificiale.
«Ci convivo sin dall’inizio: la utilizzo da sei-sette anni. Ma nonfeticizzo la tecnologia. Uso diversi media che mi servono. In questo caso, l’Intelligenza Artificiale risulta conveniente rispetto a quello che devo fare, si confà a un percorso in cui ero impegnato già prima: l’idea di dare vita a qualcosa di inanimato, per esempio. Il processo di apprendimento è un’opportunità. Mi interessa come la tecnologia muti la costituzione stessa dell’umano: la creatura che cambia il suo creatore. Il concetto di umano è plastico, modificabile».
In passato ha detto che il suo è un tentativo di “defictionalizzare” la fiction e “derealizzare” la realtà.
«Perbacco, sì (ride ancora)! Ho davvero detto questo? Ci sono tanti piani di realtà. “Derealizzare” la realtà nel mio caso significa mettere in dubbio alcuni paradigmi che abbiamo reso oggettivi. La fiction, invece, è unveicolo per accedere concretamente ad altre possibilità».
La sua mostra, tra creature non umane e lingue inesistenti, è una grande fiction?
«Non penso che la mostra sia una fiction, ma tante finzioni insieme che possono risultare diverse vie di accesso per il visitatore. Il mio obiettivo è lo spiazzamento, non l’illusione. È come quando vedi un film, leggi un romanzo o un testo di filosofia: il risultato varia a seconda della qualità dell’opera, ma anche rispetto al momento in cui si trova chi legge o guarda. Vorrei che chi affronta la mostra raggiungesse un distacco momentaneo dall’addomesticamento a cui siamo sottoposti come umani».
Ha suggerimenti per i visitatori? Come devono affrontare il percorso?
«Di solito non do suggerimenti.
Non mi piace indirizzare, né fare proclami. I visitatori devono perdersi. È paradossale e complicato portare in questo spazio chiuso e definito come Punta della Dogana qualcosa che cambierà nel corso della mostra. Di solito realizzo progetti in ambienti naturali diversi che sono portatori essi stessi di una loro narrativa. Il visitatore qui sarà parte del contesto, ci passerà attorno. Potrà decidere quanto restare e questo inciderà su quello che sentirà. Farà l’esperienza di qualcosa che è impossibile esperire, come quella di ascoltare una lingua ineffabile, che si autogenererà artificialmente giorno dopo giorno. Altre macchine compiranno gesti, saranno portatrici di linguaggi formali con una loro logica. Molti lavori, non tutti, evolveranno nelcorso del tempo della mostra, raccogliendo dati e reagendo alla presenza del pubblico».
Perché si è trasferito in Cile?
«Per amore, mia moglie è cilena, abbiamo una figlia. Vivevamo a New York e poi è arrivato un momento, quattro anni fa, in cui abbiamo capito che era meglio trasferirci in Cile».
Anche il suo lavoro in mostra, “Camata”, è connesso al Cile.
«Dieci anni fa, nel deserto cileno di Atacama, il più arido e antico della Terra, dove la Nasa fa ricerca sui pianeti esterni al sistema solare, ho scoperto uno scheletro umano. Ora è diventato l’oggetto di un video che si gira e si monta da solo con l’Intelligenza Artificiale. Un’entità senza corpo e un corpo umano senza vita si confrontano davanti ai visitatori che sono a Venezia, in una sorta di rito, un funerale o unparto, a seconda dei punti di vista».
Negli anni Novanta, lei realizzò “Les incivils”, un video girato negli stessi luoghi di “Uccellacci e uccellini”. Qual è il suo rapporto con Pier Paolo Pasolini?
«Pasolini è qualcuno da cui ho rubato in passato. Mi piace la relazione che aveva con gli attori non professionisti e con il sublime.
Il suo cinema è scritto nel linguaggio della realtà. Ma lui saltava dal reale alla fiaba: non produceva esattamente documentari, ma nemmeno solo fiction. Mi ha molto influenzato questo. Mostrava una realtà senza giudicarla».
A che cosa serve l’arte oggi?
«A coltivare la perplessità. È l’incontro con un alieno che prova a mettere in discussione valori precostituiti».