Intervenendo a Cesena alla riunione del correntone anti-segreteria Schlein (a parole, però, nel segno dell’unità del partito), Romano Prodi ha pronunciato il termine decisivo: “rassegnato”. Il Pd è un partito rassegnato – a perdere, si potrebbe dire, viste le numerose sconfitte collezionate nella sua non lunga storia, ma prima ancora privo di qualsiasi fervore politico, orientato soltanto, quando pure lo è, alla semplice gestione dell’esistente. Il problema è che il Pd è il partito sbagliato, nato male e cresciuto peggio: un agglomerato di piccoli potentati che si fanno la guerra, e preferiscono di gran lunga perdere le elezioni anziché veder vincere gli avversari interni. Ora, per esempio, si sa già che l’obiettivo della variopinta compagine riunita intorno a Bonaccini (si va da cariatidi di una vecchia dirigenza, come Fassino, a renziani come l’ex sindaco di Lodi ed ex ministro della Difesa, Guerini) è quello di fare andare male Schlein alle prossime europee per riprendersi la guida del partito. Un gioco da ragazzi: se Elly non arriva intorno al 25%, tutt’al più poco sotto, dovrà lasciare. E Bonaccini sarà il leader – avendo dalla sua, del resto, la maggioranza degli iscritti. Se, al contrario, Elly riuscirà a risollevare le sorti elettorali del Pd, a lasciare sarà una parte, non si sa ancora quanto consistente, di quelli che stanno con Bonaccini. È ciò su cui punta il trasformismo parlamentare di Renzi: un gruppo formato con gli attuali renziani ancora nel Pd e l’aggiunta di un po’ di transfughi da Forza Italia.
Dunque, povero Pd e povero Prodi! Il primo rassegnato, d’altronde, è proprio lui. Si diede molto da fare per tirar fuori un unico partito dai Ds e dalla Margherita, e poco dopo se ne andò piccatissimo. Nel caso specifico, a farlo arrabbiare (e aveva anche ragione) fu l’atteggiamento di Veltroni che, diventato segretario del Pd, si mise subito a dir male della “scienza delle coalizioni politiche” di Prodi (che aveva dato vita a un’alleanza molto composita, con cui aveva vinto le elezioni di un soffio nel 2006), vagheggiando Veltroni la famosa “vocazione maggioritaria” e perdendo poi rovinosamente – dieci punti di distacco in percentuale – contro la destra berlusconiana.
Insomma, il primo a lasciar perdere, dimostrando di non riporre fiducia alcuna nella sua creatura, fu proprio Prodi. E adesso vorrebbe – con chi poi? con i bonacciniani? – chiamare a un sussulto di fierezza il partito? Ma questo partito – facciamo un po’ di fantapolitica basata, tuttavia, su quanto è accaduto in passato – è destinato a scindersi “a sinistra”, quando in esso prende il sopravvento la componente iper-moderata (ridicolmente chiamata “riformista”), e “a destra” quando prevale invece la componente meno moderata. È il destino del partito sbagliato: le sue correnti interne, organizzativamente divise, potrebbero trovare una piattaforma comune, un compromesso per un programma di governo; unite in un unico organismo politico, si distruggono a vicenda.
Nella nostra sfera di cristallo vediamo allora che la prossima scissione potrebbe riguardare la stessa segreteria Schlein. È piuttosto improbabile che Elly nel 2024, anche per via di un apparato che la rifiuta, vada benissimo alle europee, tutt’al più benino. Nell’ipotesi di una ripresa in grande stile della conflittualità interna – tenendosi o no il marchio Pd, ciò dipenderà dalle circostanze – a scindersi sarà lo stesso gruppo di Schlein, che potrebbe poi avviare un processo di unificazione con l’Alleanza verdi-sinistra, e alla fine riallearsi con gli ex dello stesso partito. Saranno costretti dalla situazione a mettere su tutti insieme un nuovo centrosinistra, con i postpopulisti di Conte e perfino con i centristi di Calenda, per forza di cose spinto a coalizzarsi. Se riusciranno a costruire una piattaforma comune – però differente, diciamolo, dai centrosinistra prodiani del passato, non più ispirata alle scelte di un “neoliberismo dal volto umano” – avranno non poche chance di battere le destre. Altrimenti nisba.