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«Merry Christmas». Sono passati trent’anni da quando il primo Sms è giunto a destinazione. Era il 3 dicembre 1992 e il telefono si apprestava a diventare qualcosa di molto diverso da quello che era stato per oltre un secolo.
Non più soltanto la nostra voce, come recitava nel decennio precedente lo slogan dell’unica — all’epoca — compagnia telefonica italiana. Ma lo strumento privilegiato di «comunicazioni a distanza svincolate da ogni limite di presenza fisica. Tanto che oggi, dove c’è un essere umano, è molto probabile che ci sia anche un telefono», come scrive Bruno Mastroianni nella sua Storia sentimentale del telefono. Uno straordinario viaggio da Meucci all’Homo smartphonicus (Il Saggiatore).
Questi profondi cambiamenti nel modo di comunicare tra le persone hanno avuto, stanno avendo e continueranno ad avere notevoli ricadute anche sulla lingua che usiamo. Di qui l’idea di questa brevissima storia linguistica del telefono, o — per meglio dire — telegrafica storia dell’italiano telefonico.
Dalla grafia alla foniaLa questione, in effetti, si era già posta con il telegrafo e la sua lingua sincopata ed ellittica che tanto affascinava i futuristi. Nel suo manifesto Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà (1913), Filippo Tommaso Marinetti vagheggiava una letteratura che si esprimesse «telegraficamente, cioè con la stessa rapidità economica che il telegrafo impone ai reporters e ai corrispondenti di guerra». Ma già nel 1862, in un libro sul Telegrafo in relazione alla giurisprudenza ci si poneva il problema di «mettere l’arte in luogo di una rozza prassi, e studiare uno stile laconico, senza che perda di chiarezza e di precisione». Secondo le buone regole di un testo scritto, giacché — come diceva il suo nome grecizzante — il telegrafo era un modo per portare a distanza la scrittura.
Proprio come il telefono voleva fare con il suono. Certo, poteva trattarsi in principio di distanze non così grandi. La prima attestazione della parola che sono riuscito a trovare è nelle note aggiunte dal traduttore italiano a un francese Trattato completo ed elementare di fisica (1815). Lì, parlando della trasmissione del suono, si spiega che «la tromba parlante o porta-voce o telefono può dirsi un cornetto acustico rovesciato» la cui estremità, applicata sull’orifizio dell’orecchio, consente di concentrare «i raggi fonici paralleli».
Nella seconda metà del secolo la parola ricorrerà soprattutto nell’ambito della navigazione, per indicare strumenti di segnalazione acustica. «In passato adoperavansi a tale scopo le campane, le trombe, i timpani; ora questi strumenti sono riconosciuti insufficienti ed altri se ne idearono, ben più potenti, detti telefoni», si legge in un manuale sui Battelli a vapore ed i fari del 1869. Ancora nel 1873, una cronaca dall’Esposizione Universale di Vienna racconta di un simile «strumento inventato dall’ingegnere signor Albani» in forma di «tromba a vapore» e «da lui chiamato il Telefòno»: con l’accento ben segnato sulla prima o.
La concessione del telefonoGià due anni prima, Antonio Meucci — fiorentino emigrato a New York — era riuscito a registrare una sorta di pre-brevetto per un apparecchio molto diverso, in cui il trasporto della voce umana avveniva grazie all’elettricità. Differenza evidenziata anche dal nome scelto per l’oggetto: il telettrofono. La sua «Telettrofono company» non ebbe però successo, come testimonia anche la scarsissima diffusione della parola. La registrazione, non rinnovata, decadde e nel 1876 un’analoga invenzione fu brevettata da Graham Bell, diffondendosi rapidamente con il nome di «telefono Bell».
Nel 1877, descrivendo il funzionamento di questo ritrovato tecnologico «che solo in questi giorni è giunto da noi», ma «ha già fatto in America, in Inghilterra, in Germania e in Francia una grande strada», il periodico «Il Progresso. Rivista delle nuove invenzioni e scoperte» segnala «i due principali vantaggi che faranno sì che questo apparecchio si volgarizzerà rapidamente»: «L’assenza di intermediarii, e la semplicità dell’istrumento».
Meno semplice — magari — poteva risultare avere l’autorizzazione per usarlo, come testimonia La concessione del telefono, in cui Andrea Camilleri parte da un fatto reale avvenuto nel 1892. O anche superare le difficoltà dovute alle frequentissime interferenze, a volte per gli errori delle centraliniste che smistavano le telefonate. Il 10 novembre 1892, Matilde Serao scriveva nel «Mattino» un lungo articolo di sfogo in cui definiva il telefono un’invenzione nata «per facilitare la vita all’umanità, ma, viceversa, origine di collere, di arrabbiature, di urti nervosi e di stravasi di bile». «Tutti i mezzi riescono buoni, per parlare con la gente lontana, salvo il telefono: esso è una ironia vivente, è l’imperfetta, presuntuosa e inane scienza moderna destinata a guastare la vita umana».
Mi ami? Ma quanto mi ami?Un secolo dopo, quando viene mandato quel primo Sms, la situazione è ben altra. Certo, nel frattempo ci sono state altre profezie negative. Come quella di Marshall McLuhan — lo stesso del celebre aforisma «il mezzo è il messaggio» — che nel suo Understating media (1964) considerava il telefono «un irresistibile intruso capace di penetrare ovunque in qualsiasi momento». E, citando una canzone degli anni Venti, ne preconizzava il rapido tramonto: «Il ciclo di All alone by the telephone si è ormai concluso. Toccherà presto al telefono essere “tutto solo” e “sentirsi triste”».
Ma alla fine degli anni Ottanta il telefono è uno dei pilastri di quella tecnologica oralità «secondaria» che nelle relazioni tra le persone sembra avviarsi a soppiantare del tutto la scrittura.
«La differenza tra me e mia figlia — raccontava nel 1984 la linguista Maria Luisa Altieri Biagi — è scandita dal fatto che i miei epistolari amorosi erano per me importantissimi». Invece «mia figlia telefona, con grave danno delle finanze familiari, e, a parer mio, perdendo qualche cosa nel tipo di rapporto». Come in quello spot di pochi anni dopo in cui due adolescenti non riuscivano a smettere di parlare al telefono («Mi ami? Ma quanto mi ami?») o in I Just Called to Say I Love You, la canzone di Stevie Wonder (1984) evocata nel libro di Mastroianni per concludere il capitolo Amore! Chiamami. Come in quelle lunghe telefonate dalle cabine telefoniche entrate di diritto nell’immaginario collettivo: «Amori sotto vuoto dentro le cabine/ e un sole che va giù insieme al gettone», cantava Claudio Baglioni in Amori in corso (1985). Anche se c’era ancora qualcuno che preferiva scrivere lettere: «Scusa se ti scrivo/ ma sai non c’è poesia/ a dire che ti amo/ sulla tua segreteria» (Luca Barbarossa, Vivo, 1988). Già, perché rispetto ai tempi di Se telefonando (Mina, 1966), ora si era messo di mezzo quel nastro magnetico che spesso costringeva a registrare un solitario monologo: «Io che ti telefono/ tu che non sei in casa/ “Lasciate un messaggio”» (Raf, Due, 1993).
Il mezzo è il messagginoGli Sms sono oggi in procinto di scomparire, rimpiazzati dai social network e dai vari servizi di messaggeria. Con il progressivo invecchiare dei cosiddetti «nuovi media», rapidissimo è stato anche il declino di quel vecchio slang che all’epoca serviva a mostrarsi alfabetizzati in queste forme di scrittura. Quella simulazione di parlato tutta basata su fatti grafici come le abbreviazioni, gli iconismi, le grafie fonetiche che in un certo periodo è stata considerata quasi una lingua a sé: «Potresti per favore scrivere in italiano e non in SMSiano? Grazieeee!», «X ki nn kpisce + litaliano: io nn kpisko lo smsiano», «Da amministratrice di un forum frequentato da gente di tutte le età non ne posso più delle lamentele di gente che giustamente protesta perché nn kpsc 1 kzz d qll k scrvn i ggggiovani».
Già oggi possiamo ben dire che l’e-taliano non è più quello di una volta. Le abbreviazioni sono ormai passate di moda, le usano solo i cosiddetti «bimbiminkia».
Quello che resta è una testualità frammentata e deficitaria: ciò che davvero rende questo digitare diverso dallo scrivere. Ma resta anche il fatto che in questi trent’anni siamo diventati tutti graforroici. Sempre pronti a pestare sui tasti per sfruttare le nuove forme di chiacchiera telematica che la tecnologia ci ha messo a disposizione: dall’èra del regionale ciacolare a quella del globalizzato chattare. Al punto che se un tempo il mezzo era il messaggio, adesso è senz’altro il messaggino. Un altro diminutivo, come quel telefonino che fin dall’inizio si è affermato nel nostro uso quotidiano molto più del tecnico (telefono) cellulare ed è rimasto la base di denominazioni legate a successive evoluzioni come le parole videofonino (dal 2000) o il tvfonino (dal 2006).
Un vocale di dieci minuti«Con il telefonino», scriveva il filosofo Maurizio Ferraris nel 2005, «non assistiamo a un trionfo dell’oralità, bensì della scrittura». Ma nel giro di pochi anni la situazione è cambiata ancora, portando a compimento quello che il linguista Raffaele Simone ha chiamato il passaggio dal «paradigma digitale» al «paradigma multimediale».
La progressiva sostituzione del telefonino con lo smartphone (nel mercato italiano il sorpasso avviene nel 2014) fa sì che il testo torni a perdere terreno sia rispetto alle immagini sia — eccoci qua — rispetto al parlato. Le emoticon cedono il passo a emoji e gif e sticker, i messaggini prendono ad accompagnarsi o alternarsi a foto, video e audio. E dal 2013 tramite WhatsApp si possono mandare anche messaggi vocali: «Ti mando un vocale di dieci minuti/ soltanto per dirti quanto sono felice», cantavano i Thegiornalisti qualche anno dopo (quando peraltro non c’era ancora la possibilità dell’ascolto a velocità aumentata).
Nel frattempo, per quanto possa sembrare strano, quell’oggetto abbiamo ripreso a chiamarlo semplicemente telefono («l’oggetto che queste otto lettere indicano è cambiato molte volte nei suoi 150 anni di esistenza», scrive Mastroianni nella prima pagina del suo libro): anche perché sta tornando a essere soprattutto lo strumento della voce. Quella che oggi si sta affermando anche grazie al telefono è infatti un’oralità «terziaria», sempre più legata al ruolo dell’intelligenza artificiale e al Siri talk che punteggia il dialogo tra persone e macchine. Quella sorta di baby talk elementare e scandito che usiamo quando parliamo con l’assistente digitale del nostro telefono.
Negli ultimi tempi si è fatto un gran rumore intorno al cosiddetto parlare «in corsivo», ma la verità è che molto più spesso — per evitare di sentirci rispondere: «Non ho capito quello che hai detto» — ci ritroviamo a parlare in stampatello.
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