di Marco Cicala
Il 18 novembre del 1922, esattamente un secolo fa, Marcel Proust, 51 anni, moriva nel suo letto al civico 44 di rue Hamelin, XVI arrondissement parigino. Era parecchio indebolito, ma di che cosa morì precisamente? Anche le sue malattie si sono lasciate dietro un alone di mistero e pettegolezzi… “Insufficienza respiratoria dovuta a sovrainfezione bronchiale: polmonite”. Cento anni dopo, è questo il referto di François-Bernard Michel. Classe 1936, insigne pneumologo francese, specialista in allergie, membro dell’Académie nationale de médecine, nonché poeta e saggista, ha dedicato ai malanni di Proust due studi di rara sensibilità che non sono stati tradotti in italiano, ma lo meriterebbero: Proust et les écrivains devant la mort (Grasset, 1995) e Le professeur Marcel Proust (Gallimard, 2016).
Professore, secondo lei fu lo pneumococco il killer di Proust.
“Con tutta probabilità sì. Ne era ossessionato. Ma allo stesso tempo lo sottovalutò. Gli avevano fatto credere che fosse un parassita gentile, delicato. Per il 40 per cento delle persone lo pneumococco non è patogeno, ma per l’altro 60 lo è. Specie se parliamo di soggetti debilitati. E Proust era più che deperito. Forse nemmeno gli antibiotici avrebbero potuto salvarlo”.
Fin da ragazzino soffriva d’asma. Che però all’epoca era considerata un’affezione arcana. Più che una malattia una specie di condizione dello spirito.
“Ai tempi di Proust l’asma era un pianeta sconosciuto. A corto di strumenti sia diagnostici che terapeutici, l’attribuivano ai nervi. Nerveux era la parola passepartout nelle diagnosi: ‘Le manca il respiro? Lei è troppo nervoso. Non ha che da darsi una calmata’”.
Però circola ancora la leggenda di un Proust ipocondriaco, simulatore, malato immaginario che si lamenta ma continua a frequentare i salotti.
“È una leggenda che corrisponde alle caratteristiche della malattia. Nella vita, l’asma procede in modo molto strano: appare, scompare, rispunta. Ha un andamento sinusoidale. Durante una crisi l’asmatico rischia il soffocamento, ma appena ne è uscito torna normale, come se niente fosse successo. Da qui il sospetto, all’epoca di Proust, che l’asmatico sia un ansioso. O uno che finge. Magari per farsi compatire”.
Ad ogni modo, per combattere la malattia Marcel le sbaglia tutte.
“Proprio tutte. Si cura da sé, si impone diete assurde, si imbottisce di narcotici, barbiturici, e – massimo errore – si barrica in casa. Temendo il contagio, sprofonda tra gli allergeni domestici senza mai aprire le finestre, senza arieggiare”.
A che cosa era allergico?
“Ai pollini, alle graminacee, agli acari della polvere casalinga, del cuscino, del materasso, del letto su cui scrisse la Recherche. Ma si credeva intollerante anche a cose che allergeni non sono: i petali di rosa, i profumi… C’è da capirlo: certi asmatici non sopportano gli odori intensi”.
Proust non ne azzecca una, eppure la medicina lo appassiona. Del resto in famiglia aveva due dottori, il fratello Robert e soprattutto il padre Adrien, una celebrità nell’ambiente…
“Adrien era uno specialista in sanità pubblica, igiene, epidemie, vaccinazioni, prevenzione. Ma aveva un approccio antiquato, meccanicista alle malattie. E non aveva mai praticato davvero la professione medica. Si dimostrò incapace di curare il figlio. Lo mollò nelle mani dei colleghi. Quando, a dodici anni, Marcel ha la prima crisi d’asma in un giardino degli Champs-Élysées, il padre è terrorizzato, smarrito, non sa che fare, non ha mai visto nulla di simile”.
Nella Ricerca del tempo perduto si avverte una notevole antipatia dell’autore verso la classe medica.
“Proust non ama i luminari della medicina, i dottori mondani, gli scienziati da salotto. Li vede come un’élite di incompetenti, di presuntuosi… Gente che in mancanza di risposte non ha il coraggio di dire “Non so” e la butta sullo psicosomatico, sul nerveux. Ai grandi professori Proust preferisce i medici umili, modesti, magari mediocri, ma capaci di empatia col paziente, con l’essere umano che soffre e che hanno davanti”.
Lei che li ha curati per una vita sa meglio di chiunque che sugli asmatici gli stati emotivi incidono parecchio. Ma allora perché respinge la “psicosomatica”?
“Perché dai tempi di Proust ‘psicosomatico’ è diventato un termine abusato che dice tutto e nulla. E che in fondo riposa sulla vecchia concezione gerarchica secondo cui in alto ci sarebbe la psiche, lo spirito, e in basso il corpo. Mentre le due cose sono intrecciate. I fattori psicologici influiscono su qualsiasi patologia. Ma l’asma non è autosuggestione: è una malattia. Di cui a quell’epoca non si sapeva niente e sulla quale si sproloquiava”.
Quando si è cominciato ad averne ragione?
“A metà degli anni Settanta del secolo scorso. Con i beta-mimetici e soprattutto con il cortisone. Grazie al cortisone l’asmatico può ormai condurre una vita quasi normale”.
Se Proust avesse avuto sottomano il cortisone forse oggi non avremmo la Recherche.
“Chi può dirlo? Magari sarebbe diventato lo stesso uno scrittore notevole, ma non un gigante…”.
Voleva davvero guarire? In lui malattia e creazione fanno tutt’uno. Dell’arte, del “genio”, Proust sembra avere una visione sacrificale, cristica.
“È vero. Ma riformuliamo la questione così: per dipingere, comporre, scrivere grandi opere è indispensabile essere stati sofferenti, malati tutta la vita? Non lo credo. Però penso anche che non ci sia vera creazione senza dolore, senso di perdita e di disagio. Proust vive l’asma come un ostacolo, ma allo stesso tempo la sfrutta, se ne serve per isolarsi e dedicarsi interamente alla sua impresa di scrittura”.
C’è perfino chi ha letto le sue lunghissime frasi come il riflesso di un respiro lento.
“Non credo che asma e stile siano collegati. Ma di crisi in crisi Proust sviluppa sicuramente un’ipersensibilità rispetto alla dimensione del tempo. È come se, tra contrazioni e dilatazioni, gli attacchi d’asma gli permettessero di aprire un varco nello scorrere del tempo ordinario, facendogli avvertire con straordinaria intensità la scansione, il flusso, il lavorìo dei giorni e degli anni sui volti, sui corpi sempre più segnati dagli acciacchi, dalle rughe. In un certo senso, l’asma gli fa ‘scoprire’ il tempo”.
E la malattia diventa metafora.
“In Proust la mancanza di respiro rimanda sempre a una sottrazione, a una perdita affettiva, a qualcuno o qualcosa di amato che il tempo, la morte ci hanno tolto. Ce lo hanno strappato da dentro, dal petto, dai polmoni, lasciando un vuoto che può essere sostituito da nuovi affetti ed esperienze ma mai davvero colmato, cicatrizzato. Per Proust i rantoli, i sibili, i fischi dell’asmatico sono un lamento. Sono il linguaggio cifrato di quel dolore”.
In fatto di allergie fu a suo modo profetico. Ne intuì la modernità, il futuro dilagare.
“Negli anni in cui si scopre l’allergologia, Proust afferra subito il meccanismo della malattia, il nesso tra l’allergia come fenomeno fisico, medico, e come realtà psichica, lavoro dell’inconscio. Capisce che attraverso le allergie l’individuo esprime un rifiuto, un rigetto verso gli altri”.
Parlava di sé, del proprio rifiuto. Lei ha scritto: “Contrariamente alle apparenze, il vero mondo di Proust non era quello delle cene e dei salotti mondani” ma quello “del suo antro, dal quale usciva soltanto per fare provvista di immagini e nel quale tornava subito, come l’uomo preistorico che rientra nella caverna per metabolizzare i prodotti della sua caccia”. A un certo punto è come se Proust non volesse più respirare la stessa aria che respirano i suoi simili.
“Sviluppa una fobia del mondo esterno, lo ritiene sempre più ostile, pericoloso, contagioso. Si autoreclude in casa. Con l’asma immagina di sigillarsi ermeticamente i polmoni”.
Ha orrore delle punture e si cura da sé. Oggi sarebbe stato un No Vax?
“Non è da escludersi. Cambia di continuo medici e farmaci, ma ne resta deluso. Passa così all’auto-terapia, dispensando perfino consigli agli amici su come curarsi. All’inizio sposa l’interpretazione psicologica dell’asma, in seguito capisce che, fatti salvi gli elementi psicologici, si tratta invece di una vera malattia”.
E come la affronta?
“Ricorre soprattutto alle fumigazioni. Fino ad abusarne. I fûmages, come li chiamava lui, diventano una sorta di lungo rituale ripetuto per ore, anche più volte al giorno. Marcel scrive di notte. Al risveglio, nel pomeriggio, si siede nel buio a un tavolino illuminato da una candela. Candela di cui si serve per accendere con foglietti di carta le cosiddette “polveri anti-asmatiche”. Da quelle sedute riemerge sempre pallidissimo, barcollante, le pupille arrossate, dilatate, i vestiti impregnati di fumo, talvolta bruciacchiati dai grani delle polveri”.
Che polveri erano?
“Composti vegetali che potevano contenere estratti di belladonna, giusquiamo o datura, il famoso stramonio. Proust ne parlava come della sola cosa che lo avesse veramente aiutato. Non erano esattamente dei placebo, però avevano un effetto di breve durata e comunque non andavano alla radice, non agivano sull’infiammazione dei bronchi. Proust aveva provato anche le sigarette anti-asma che si vendevano nelle farmacie, ma subito le aveva abbandonate sostenendo di non sopportare l’odore della carta bruciata. In Francia polveri e sigarette anti-asmatiche sono state ritirate dal commercio solo negli anni Novanta del secolo scorso. Producevano effetti allucinatori e i tossicomani ne facevano largo uso. Potevano causare disturbi della vista, tachicardie, vertigini, problemi muscolari fino all’atassia, la perdita di controllo di certi movimenti volontari”.
Ma l’armadietto dei farmaci di Proust medico di se stesso e “addicted” non si chiude qui. Pur di portare a termine la Recherche, Marcel diventa dipendente da sonniferi, narcotici, barbiturici. Li alterna agli eccitanti, adrenalina, caffeina… Lotta allo stesso tempo per rimanere sveglio e per dormire. E così si riduce a uno straccio…
“Per combattere l’insonnia assume sonniferi spaventosamente potenti. Non sono più in vendita da tempo. Abbrutivano. L’effetto poteva durare giorni facendoti piombare in uno stato di letargia. Viene da chiedersi come Proust riuscisse a scrivere in una condizione del genere. Oltretutto, sul finire, si nutriva solo di caffellatte, la punta di un croissant o qualche sorso di birra”.
Torniamo ai medici. Tra quelli di cui Marcel fu paziente scettico qualcuno se ne salva. Lei ricorda ad esempio il dottor Paul Sollier.
“Anche se non lo frequenta a lungo, Proust è colpito dai metodi, dalle sperimentazioni di Sollier, il quale ascolta il paziente, lo lascia parlare, cerca di risalire a traumi affettivi sepolti nel passato e di risvegliarli. È il concetto di “reviviscenza””.
Siamo già nella temperie psicanalitica.
“Sì, ma come sappiamo, la scrittura di Proust si spinge al di là della “reviviscenza”, cioè del semplice ricordo di un accadimento ripescato dal passato. Nella “reminiscenza” proustiana la memoria trasforma certe esperienze trascorse in un vero “presente”. Quelle esperienze si riattualizzano al massimo dell’intensità emotiva”.
Il Proust auto-terapeuta è tutto fuorché un modello da imitare. Però ai suoi asmatici lei ne ha consigliato spesso la lettura. Perché?
“Premesso che Proust può essere d’aiuto a qualsiasi essere umano, agli asmatici continuo a dire: d’accordo, avete una malattia, ma non consideratela una tara. Sulla falsariga di Proust, fatene qualcosa. Approfittate dell’asma per rieducarvi. Che so, per imparare a suonare uno strumento musicale. Non sto a dirle i casi di ragazzini asmatici di cui le mamme mi dicevano ‘Oddio, che cosa ne sarà del mio bambino?’ e che ora suonano in orchestre o bande. Ormai sappiamo che a un asmatico si offrono tanti percorsi di recupero. Per quanto mi riguarda, ho cercato di mostrare l’efficacia di certi sforzi fisici portando i pazienti sulle montagne. Me li sono trascinati fin su in cima al Monte Bianco”.
Sul Venerdì del 18 novembre 2022