In questi giorni, l’editore inglese Mack pubblica The Artist’s Book e raccoglie così le splendide pagine degli otto libri d’artista di Francesca Woodman in un unico volume, includendo due volumi scoperti di recente e mai visti prima (Untitled – Pilgrim Mills 1977-1978 e Untitled – Self-Deceit, 1978), oltre a titoli noti come Some Disordered Geographies, pubblicato all’inizio del 1981, pochi giorni prima del suicidio (avvenuto il 19 gennaio 1981). Questa raffinata edizione offre nuove prospettive e possibilità di indagine sull’arte di Francesca Woodman.
Woodman aveva trovato il piccolo libro Esercizi graduati di geometria alla libreria Maldoror di Roma tra il 1978 e il 1980, e lo aveva trasformato in Some Disordered Geographies. La libreria era gestita da Giuseppe Casetti e Paolo Missigoi, impegnati a «recuperare una cultura che era stata bandita: da Nietzsche a Céline, da Longanesi a Pound». Sabina Mirri, altra amica della libreria Maldoror, sarebbe stata ritratta in svariate sequenze create da Woodman tra il ’77 e il ’78; inclusa quella celebre de La storia del guanto, concepita a Roma in omaggio a Breton e Klinger e rievocata in almeno due di questi quaderni.

L’ARTISTA ERA INTERESSATA a un approccio parallelo ma opposto a quello di Breton, elaborava e interpretava visivamente il linguaggio ordinario e gli idiomi. Aveva esplorato questa idea in forma di libro a Providence: in Portrait of a Reputation – qui incluso – realizzato in sequenza e rilegato in una serie di fotografie che traducono metafore letterarie in immagini.
I genitori, Betty e George Woodman, insegnavano entrambi nel Dipartimento di arte dell’Università del Colorado, a Boulder. D’estate, la famiglia Woodman viveva in Italia. E in Italia, Francesca e suo fratello Charlie avevano frequentato per un anno la scuola elementare italiana (diventando bilingue). Nel 1968, i Woodman acquistarono una vecchia casa colonica in pietra ad Antella, vicino a Firenze. Come scrive Chris Kraus, «Francesca ebbe più familiarità con la storia dell’arte italiana che con la televisione americana». L’arte era la religione dei genitori. «I nostri figli – ha spiegato il padre George in un documentario dedicato alla famiglia – hanno imparato che l’arte è una priorità assoluta: va fatta». Woodman aveva interiorizzato ogni possibile «esercitazione» proposta durante i corsi di fotografia, assumendo quel tipo d’approccio al linguaggio fotografico (problemi da risolvere!), nello spirito di un apprendimento modernista. E questo emerge fin dal suo dialogo con le Definizioni preliminari del volume Esercizi graduati di geometria, dove rivela che intende adeguarsi alle prescrizioni: preliminary definitions.
1. La Geometria è la scienza dell’estensione. 2. L’estensione di un corpo è la porzione di spazio occupata da questo corpo. 3. Nell’estensione dei corpi si considerano tre dimensioni: lunghezza, larghezza e altezza, detta a seconda dei casi anche spessore o profondità. Queste sono le definizioni essenziali scelte; le altre, decide di coprirle con un (auto)ritratto (senza concedere certezza all’identità della persona ritratta, dal momento che una mano copre gli occhi). Vediamo il palmo coperto di fuliggine o di carboncino. Potrebbe essere il palmo di qualcuno che ha testimoniato sul muro di una caverna: una giovane donna è stata qui (I. a sort of round).
Ne Il Quaderno dei dettati e dei temi 1978-1980, un altro dei due libri noti, Woodman aveva sovrapposto – alle pagine invecchiate – altre immagini: trasparenze positive. Queste immagini in trasparenza fluttuano, i piedi, le gambe, le piume ritratte sono immerse tra parole di una densa ed elegante calligrafia italiana dei primi del Novecento, e fanno pensare a: nessuno può bagnarsi due volte nello stesso fiume. Pagine di dettato. 1908 – 3 aprile. Dettato. A mia madre. Woodman aggiunge nell’immagine in trasparenza uno strumento nero: un intervento di cancellazione copre il resto. La mia camera è vuota: triste! … ho paura!… e i miei occhi nella semioscurità del giorno che muore (…). Enfasi d’altri tempi. Woodman aveva iniziato l’assemblaggio nel 1978 (anno in cui aveva vissuto a Roma) e come era prevedibile, aveva continuato a lavorarci negli anni successivi. Forse riferendosi proprio a questo quaderno, nel dicembre 1979, aveva scritto all’amica e mentore Edith Schloss, conosciuta a Roma: «Il mio lavoro sta andando molto bene. Sto facendo altri libri con immagini trasparenti sovrapposte. Sento che hanno un senso e sono piuttosto interessanti, il che è un bel cambiamento rispetto alla sensazione di nausea che provo spesso. Tutti dicono che non si possono esporre i libri e che il mio genere costa troppo per essere stampato, ma io non sono altro che una testarda».

INTORNO AI 21 ANNI, Woodman era scivolata definitivamente in una fase depressiva. «Era una ragazza travagliata», diceva in un’intervista Rosalind Krauss: aveva smesso di fotografare per un periodo, e cercava – come scriveva agli amici – un’altra prospettiva, meno femminile, meno personale. Aveva esaurito, a seguito di una concentrazione totalizzante, «l’esprit dei tableaux intimi». Poco mesi prima di morire suicida, era stata riaccolta in famiglia e seguita da una terapeuta («non credo che la terapeuta l’avesse presa abbastanza sul serio», sosteneva sua madre Betty).

SERVIREBBE A QUALCOSA indagare lo strano effetto che le opere hanno sulla vita degli artisti? Forse sì. Nel caso di Woodman – come è prevedibile – è stata richiamata spesso la nozione di Kristeva dell’abietto, l’abietto come dichiarazione della pulsione di morte: il desiderio di Francesca Woodman, figlia, di tornare a ricongiungersi con «il corpo materno che non può essere catturato, se non nella morte».
Di sicuro, dal 1986 non abbiamo mai smesso di interrogare le sue immagini, fin dai primi saggi di Rosalind Krauss e Abigail Solomon-Godeau. Sua madre, divenuta – in seguito – nota ceramista, sosteneva che la giovane Francesca Woodman cercava, in fondo, di risolvere problemi formali, e quando riusciva a farlo era felice, soddisfatta, ambiziosa, concreta. Dal punto di vista di sua madre, pare che niente di ciò che abbiamo immaginato, sovra-interpretato sia necessariamente vero.

IL PADRE SOSTENEVA che era un’attrice in una recita e questo le dava l’opportunità di fare in modo che tutto funzionasse. Francesca Woodman privilegiava una personale descrizione e reinterpretazione di tempo e spazio, rivendicando l’essenza della fotografia, laddove «la dimensione temporale si dilata in virtù dello studio della composizione, della posa», scrive Beatrice Seligardi, nel suo bel saggio Lightfossil. Francesca Woodman era soprattutto questo.
Il suo lavoro trascendeva le categorizzazioni, stava all’opposto di Cindy Sherman, di Sophie Calle. Woodman non amava gli stereotipi. Era interessata alle origini della fotografia, all’Ottocento, e certo possiamo trovare nelle sue immagini echi di Lady Clementina Hawarden, l’interesse «per una fase ambigua di passaggio dall’età infantile all’età oramai adulta, corpi che si rivelano, ma al contempo sfuggono (come dentro al riflesso infinito di uno specchio)», scrive Federica Muzzarelli.
Tuttavia, era interessata all’istantaneità, all’essenza del mezzo, del linguaggio. Anche quando le soluzioni ai quesiti – in una composizione – suggerivano una «storia», le risposte di Woodman si concentravano sui singoli soggetti, e al contrario di ciò che potrebbe apparire a un pubblico letterario inesperto, lei era sempre in lotta per evitare la narrazione.