A distanza di un anno l’Inghilterra ospita un altro campionato europeo di calcio. Questa volta però a contendersi il primato continentale, detenuto dall’Olanda, saranno le nazionali femminili. Iniziato mercoledì scorso (6 luglio), il torneo vedrà la sua conclusione il 31 luglio con la finalissima di Wembley, il tempio del calcio. Sedici sono le squadre partecipanti, tra le quali anche l’Italia che sarà di scena per la prima partita del girone domani sera (10 luglio) contro la Francia. A seguire gli incontri con Belgio e l’Islanda. La nostra nazionale, guidata da Milena Bertolini, giunge a questo appuntamento dopo l’ottimo risultato, sul campo e di seguito di pubblico, dei mondiali del 2019. «Le davano per spacciate ai gironi, sono riuscite invece ad arrivare ai quarti di finale, dove si sono arrese solo davanti alle olandesi. È stato importantissimo quel mondiale perché nel giro di cinque partite il pubblico italiano, che non era mai stato abituato a seguire in massa la nazionale femminile, ha avuto tempo e modo di appassionarsi», racconta Marco Giani, membro della Società italiana di storia dello sport e autore del saggio «Storia di un pregiudizio, e di una lotta» inserito nel libro di Federica Seneghini Giovinette-Le calciatrici che sfidarono il Duce (Ed. Solferino Libri). «Da allora altri risultati importanti sono stati conseguiti dal calcio femminile italiano, fino all’ultima recente conquista del professionismo per la Serie A», prosegue Giani. «Finalmente le nostre calciatrici avranno quei diritti che prima erano negati, oppure concessi per pura generosità e in maniera sporadica da qualche società: maternità, infortunio, contributi per la pensione». Un bel passo in avanti a quasi novant’anni da quando alcune giovani donne milanesi decisero di fondare la prima squadra italiana di calcio. Una storia a cui l’Amministrazione comunale di Milano lo scorso anno ha dedicato il nome di una strada «Via Calciatrici del ’33».

Giani, come nacque nel 1933, in pieno regime fascista, il Gruppo femminile calcistico?
Erano un gruppo di tifose, chi dell’Ambrosiana Inter e chi del Milan, che a un certo punto pensarono che era giunto il momento buono, vista la sportivizzazione di massa cui il fascismo stava sottoponendo le ragazze italiane dell’epoca, di passare dal tifo passivo al gioco attivo. A partire dal febbraio 1933 mandarono lettere ai giornali per presentare il loro Gruppo femminile calcistico e per invitare le nuove aderenti a farsi vive nella loro sede di via Stoppani. Nel giro di qualche mese riuscirono a radunare ben 50 socie, così a formare 2-3 squadre che giocavano fra di loro con maglie diverse; all’inizio bianconere e granata, i colori di Juventus e Torino, per non scontentare interiste e milaniste. L’allenatore, l’arbitro e il presidente del Gruppo femminile calcistico erano tutti uomini, ma non la segretaria e la team manager. Quest’ultimo ruolo fu ricoperto da Giovanna Boccalini Barcellona, sorella maggiore delle calciatrici Luisa, Marta e Rosetta. Giovanna, che veniva da una famiglia antifascista lodigiana molto amica del primo sindaco socialista della città – lo scultore Ettore Archinti, poi morto a Mauthausen nel 1944 -, in quegli anni cercava di barcamenarsi fra il suo impiego di maestra e il suo ruolo madre di famiglia.

Erano state poste dal regime delle limitazioni alle fasi di gioco?
Le fonti per ora disponibili non ci forniscono elementi utili a capire se si trattasse di limitazioni imposte dall’esterno o se semplicemente il direttivo interno al Gruppo femminile calcistico giocasse d’anticipo pensando preventivamente a delle regole speciali che presentassero il gioco come adatto a delle ragazze. Prima di tutto, le calciatrici scendevano in campo in gonna e non in pantaloncini, perché in quegli anni il tema era caldo, caldissimo: a fine 1933 l’Osservatore Romano imbastì una polemica di ben due mesi contro il Coni accusando il regime fascista di non essere abbastanza cattolico visto che mandava le ragazzine negli stadi a fare gare pubbliche e quindi a mostrare a tutti le gambe! Scendere in campo con delle gonne al ginocchio – che poi col passare dei mesi sarebbero state adattate in gonne-pantalone – era quindi una scelta prudenziale. Del resto, era da un paio d’anni che in Italia anche le cestiste giocavano con questa mise. Per quanto riguarda il gioco, le regole ricalcavano in tutto e per tutto quelle dei bambini delle elementari, i pulcini: tempi di 15-20 minuti, pallone più piccolo, gioco rasoterra. Sappiamo invece che una regola spuntò nel corso delle settimane. Se nelle prime due partite d’allenamento le ragazze infatti giocavano anche in porta, successivamente vennero sostituite da portieri maschi più piccoli di loro, sui 13 anni. Il timore era che parando si facessero male agli organi riproduttivi, che sappiamo tutti al centro della politica demografica del regime».

Una storia che ebbe però un epilogo veloce. Perché?
Essenzialmente per un gioco di potere ai piani alti che si svolse non a Milano, ma a Roma e che non riguardò più di tanto la questione della femminilità o meno del calcio. A marzo le ragazze del Gruppo femminile calcistico erano riuscite a fare un colpo da novanta quando aveva ottenuto da Leandro Arpinati, gerarca bolognese in quel momento a capo del Coni, il permesso temporaneo per giocare con qualche limitazione: per esempio senza spettatori. Con in mano quel lasciapassare, per qualche mese anche la stampa, che all’inizio le aveva attaccate senza pietà, le lasciò in pace. Poi, però, Arpinati perse improvvisamente tutto il potere accumulato perché l’invidioso segretario del Partito nazionale fascista, Achille Starace, riuscì a metterlo in cattiva luce agli occhi del Duce. Con l’arrivo di Starace molte cose cambiarono nella gestione del Coni compresa la decisione di chiudere l’esperimento del calcio femminile. Questa scelta la si può capire analizzando alcuni fatti che sarebbero successi da lì a poco. Le Olimpiadi di Berlino 1936 si stavano avvicinando e l’Italia che alle precedenti di Los Angeles 1932 si era classificata addirittura seconda nel medagliere disponendo solo di atleti maschi, non poteva di certo sfigurare in campo femminile. Così Starace, che personalmente non avrebbe mai permesso alle italiane di gareggiare in alcuno sport, chiamò i capi delle federazioni che in quel momento avevano nel programma olimpico delle gare femminili – come l’atletica, il nuoto e la scherma – e ordinò loro di tirar fuori delle possibili medaglie d’oro. Quindi che 50 ragazze sprecassero il loro tempo a giocare a calcio a Milano non era solo inutile, ma poteva essere persino controproducente, visto che toglieva all’Italia possibili atlete per altri sport. Così il calcio femminile venne boicottato: nessun dopolavoro e nessun gruppo rionale fascista fu più disposto a mettere a disposizione i campi da gioco, né nessun giornale continuò come prima a pubblicare foto e tabellini. Il Gruppo femminile calcistico venne letteralmente saccheggiato dagli istruttori della federazione di atletica leggera, che presero i tempi sui 50 a tutte le calciatrici. Le ultime notizie dell’attività del gruppo risalgono alla primavera del 1934.

Da quel 1933 in poi come procedette la storia del calcio femminile in Italia?
Sempre un po’ a frenate. Finita la Seconda guerra mondiale il calcio femminile ricominciò due o tre volte per poi finire nel giro di qualche anno, prima di una vera e propria stabilizzazione a metà degli anni Sessanta, ma quella era un’Italia anche socialmente diversa. Da lì è poi partito quel cammino finalmente continuativo che ha portato alla lunga al successo mediatico delle azzurre ai Mondiali del 2019… e chissà a che cosa in questi Europei in terra inglese!