La legge voluta in estate dalla premier contro “i profitti ingiusti” è stata concepita male, corretta e infine neutralizzata Nessun istituto ha scelto di versare una quota degli utili. Decisivo il pressing di Bankitalia con la sponda di Tesoro e Forza Italia
MILANO — Storia di una legge concepita male, corretta troppe volte e voluta da Giorgia Meloni per compensare – in senso politico – l’eliminazione del reddito di cittadinanza agli occhi degli elettori, prelevando almeno due miliardi di euro di “profitti ingiusti” (disse la premier, mettendoci la faccia) delle banche.
I profitti, sia chiaro, ci sono, e tanti: nei primi nove mesi 2023 il settore in Italia segna oltre 16 miliardi di utili netti, l’80% più di un anno prima. Il sindacato Fabi stima per l’intero 2023 utili operativi a 43,4 miliardi per i soli cinque gruppi (+70%), grazie al decollo dei margini d’interesse, quasi doppi per i 10 rialzi dei tassi Bce. Ma a tre mesi dal decreto blitz del 7 agosto, e a un mese dalla sua conversione in legge, è ormai chiaro che la norma non porterà un euro al fisco. Tutto marketing politico, che però ha destabilizzato le istituzioni e gli investitori, togliendo 10 miliardi in Borsa al settore nella sola seduta dell’8 agosto.
Già una dozzina dei maggiori istituti in Italia, nei conti del terzo trimestre, ha reso noto che non verserà l’obolo (dovuto a metà 2024), preferendo costituire una riserva di capitale non distribuibile di 2,5 volte l’importo. Dagli 828 milioni di Intesa Sanpaolo ai 440 di Unicredit, da Banco Bpm a Bper, e perfino le banche a controllo pubblico Mps, Mcc e Popolare Bari hanno scelto di non pagare e rafforzare il patrimonio. Ciò malgrado i patrimoni bancari siano ai massimi di sempre, cresciuti attorno al 15% degli attivi di rischio. I 12 leader nazionali erano chiamati a pagare la nuova impostaper 2 miliardi, ma non lo faranno, costituendo riserve patrimoniali per 5 miliardi. Utili non distribuiti, che tra l’altro riducono la tassazione prospettica del 2023. Il governo, come ha notato l’ad di Mediolanum Massimo Doris, incasserà di più, a fronte di utili maggiori. Ma in proporzione rischia di incassare meno: e nulla dalla nuova tassa.
La “parata di astensioni” avviene in un clamoroso silenzio, mentre dietro le quinte molti addetti ai lavori si chiedono come sia stato possibile per il governo prestarsi a un talesmacco. La ricostruzione che segue non troverà conferme ufficiali, ma la accreditano fonti per Repubblicaattendibili. E rintraccia nel lavoro svolto sottotraccia tra agosto e settembre dalla vigilanza Bce-Bankitalia, in asse con l’Abi e con il Tesoro e con la sponda politica di Forza Italia, il fattore che ha scardinato i propositi estivi di Meloni, cui si erano accodati Matteo Salvini e la Lega.
L’opzione di evitare la tassa creando nuove riserve di capitale 2,5 volte maggiore fu introdotta il 23 settembre, con un emendamento del governo preparato dal Mef, dopo il quale FI ritirò i suoi. Dieci giorni prima la Bce aveva inviato al Tesoro il parere dovuto – ma ben critico – sull’imposta, con diversi argomenti. Quello principale era il timore di effetti negativi per il patrimonio bancario e l’economia, in una fase di riduzione dei crediti, dovuta ai rialzi dei tassi e congiuntura stagnante (difatti Bankitalia ha poi censito oltre 60 miliardi meno di crediti a imprese e famiglie nel Paese a settembre, -6,2% da un anno prima). L’interlocuzione tra Tesoro, Via Nazionale ed Eurotower fu intensa quei giorni: e a garantirla fluida si racconta che fu l’entourage di Fabio Panetta, membro uscente del direttivo Bce e governatore di Bankitalia in pectore, gradito a Meloni. Un altro aspetto critico, fatto notare dalla vigilanza ed escluso dal decreto nella conversione in legge, riguardava gli interessi da titoli di Stato, di cui le banche sono prime detentrici dopo la Bce stessa (ne hanno per 400 miliardi), e che poteva disincentivare il loro sostegno a Btp e simili. Un terzo aspetto critico, di cui si sarebbe parlato solo dietro le quinte, riguardava Mps, salvata dal Tesoro nel 2017: la banca senese, in un percorso di rilancio, rischiava di pagare più caro di altre il nuovo obolo, riducendo le chance di riprivatizzarla l’anno prossimo (come da impegni con l’Ue), e gli incassi stimati (bene che vada ci saranno minusvalenze per alcuni miliardi).
Si era a settembre, con lo spread in risalita, fin oltre i 200 punti base sul Bund. Ogni incidente poteva costare caro al governo. Che ha dovuto abbozzare, e di fatto rinunciare alla nuova tassa.