Già adottata da banche, fabbriche e nei servizi, si pensa a una legge ma l’orario ridotto può diventare un lusso solo per grandi aziende
Intesa Sanpaolo è partita da gennaio: la settimana può diventare di quattro giorni lavorativi, a patto di arrivare a nove ore giornaliere. Il risparmio settimanale è di un’ora e mezza, da 37,5 a 36 ore, e lo stipendio non cambia. Lavazza ha lanciato il “venerdì breve”: uscita anticipata sfruttando i riposi previsti dal contratto. Un po’ come Tria, azienda lombarda di macchinari per le plastiche, che fino a luglio sperimenta l’uscita alle 12 nell’ultimo giorno della settimana. Il gruppo Magister, attivo nella gestione dei buoni pasto e nel welfare, ha tagliato netto un giorno di lavoro: da 40 a 32 ore settimanali, senza toccare la retribuzione e gli altri istituti. I dipendenti di Awin, rete globale specializzata in marketing che fa capo ad Axel Springer, anche in Italia possono scegliere una giornata o due mezze a settimana di stacco: è la flexy week.
La riduzione della settimana lavorativa si diffonde anche in Italia. Una rivoluzione dal basso, per ora sperimentale. Ma che si è presa la scenadel dibattito pubblico, tanto che il presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, Walter Rizzetto (FdI), annuncia un’indagine conoscitiva che partirà a brevissimo e si concluderà entro l’autunno: «Cercheremo di capire le posizioni delle aziende – spiega- il valore aggiunto, i possibili vulnus, e le ricadute». Senza escludere un intervento legislativo, ascoltati tutti gli attori in campo. Anche se per il momento i sindacati lo ritengono inopportuno: «Facciamo emergere la settimana corta dal basso», dice Roberto Benaglia, segretario generale della Fim Cisl. La Cisl ha lanciato la proposta di negoziare a livello aziendale una riduzione del 20% dell’orario di lavoro, una soluzione «che libera tempo senza abbassare la produttività », spiega il sindacalista. Aggiungendo che il tempo liberato non si traduce per forza nel “venerdì a casa”, può essere utilizzato liberamente, anche per la formazione. La pensa così anche la Cgil: «Si può stabilire un collegamento con la formazione retribuita in orario di lavoro – ragiona la segretaria confederale Cgil Francesca Re David – e un maggiore utilizzo degli impianti, con altri lavoratori». Anche per il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri «la riduzione dell’orario a parità di salario può aumentare il numero degli occupati, ridistribuendo le ore lavorate e riducendo le disuguaglianze».
All’estero sono già avanti. Il maxi- esperimento britannico da 61 aziende e 2.900 dipendenti si è chiuso con risultati clamorosi: lavoratori entusiasti, dirigenti convinti. Contrarre l’orario professionale non è un tema nuovo: anni addietro si è intrapreso per via legislativa (in Francia), contrattuale (in Germania). In Italia ci inciampò il primo governo Prodi.Tiziano Treu, presidente del Cnel in prima linea a quei tempi, rimarca le differenze con l’oggi: «L’approccio non funzionò perché la modulazione dell’orario di lavoro non è trattabile per legge e in modo uniforme tra organizzazioni. Le esperienze che proliferano oggi sono invece significative perché legate alle specifiche condizioni ». Non c’è dubbio, per Treu,«che il luogo d’elezione per queste innovazioni sia la contrattazione aziendale ». Concorda il giuslavorista Giampiero Falasca, partner Dla Piper: «Ogni soluzione non è buona o cattiva in sé, ma lo è secondo caratteristiche e bisogni dell’azienda». E quindi «non serve una legge. Utile sarebbe piuttosto normare il lavoro per obiettivi, incentivarlo prevenendo la degenerazione nel ‘cottimo’, ammorbidire i vincoli di orario».
«Molti studi hanno certificato la diversa produttività delle ore lavorate ragiona Emiliano Mandrone, ricercatore dell’Inapp – Dopo la quinta o sesta si può arrivare a un perdita consistente in termini di resa del lavoratore ». Senza contare l’effetto sistemico: molti esperti concordano che rimodulando l’orario lavorativo molti inattivi, donne soprattutto, si affaccerebbero alla forza lavoro.
Urge una elaborazione a più livelli: «Nelle grandi aziende di respiro internazionale è già iniziata. Ma il nostro paese è fatto di piccole imprese, dove tutto questo discorso è posticipato », aggiunge Mandrone. L’ibridazione delle mansioni porta dunque nuove fratture. Tra chi, per funzione o tipologia di bene e servizio prodotto o ancora per grado di “apertura” del datore di lavoro, può accedere alla flessibilità. E chi no. Nel caso di Intesa, ad esempio, una spaccatura coi sindacati (che non firmarono la riorganizzazione) c’è stata sulle filiali: il piano prevede una sperimentazione su 200 di esse, delle 3.700 di cui dispone il gruppo in Italia. A conti fatti, i potenziali interessati sono 32mila circa sui 74mila lavoratori italiani. Nuove disuguaglianze avanzano, soprattutto se si considera che i lavoratori sempre più pesano queste voci non monetarie come parte della loro ricchezza. «Mitigare questi aspetti sarà una sfida centrale – dice Mandrone – Si potrebbe arrivare a indennizzare chi copre le mansioni non telelavorabili, per garantirne l’organizzazione produttiva ».