Nella sala d’attesa dello studio di Massimo Recalcati succede, a volte, che i pazienti rubino i libri dagli scaffali e dal tavolo dinanzi alle poltroncine e ai divani, altre volte che i suddetti pazienti – tra cui ladri feticisti di libri – si incontrino, parlino, ed eccezionalmente, si innamorino. Nella pratica lacaniana non c’è un tempo costante, la seduta può durare pochi minuti o anche più di un’ora. È il tempo dell’inconscio, ed è dall’ascolto dell’analista che la seduta finisce: con un taglio, una figura, magari un pensiero che nutre una riflessione da portare via con sé, nella vita quotidiana. Una scala a chiocciola di ferro e di legno conduce al piano di sopra dove Recalcati, uno dei più noti psicoanalisti italiani – con una folla di ammiratori e ammiratrici che ne pedinano le innumerevoli tracce tra libri, articoli, festival in giro per l’Italia, lectio, spettacoli teatrali, trasmissioni televisive – custodisce i libri a lui preziosi che non vuole gli vengano sottratti: Sartre, Deleuze e, amatissimo, Lacan, al quale Recalcati fa riferimento nella sua pratica psicoanalitica. È lì che riceve i pazienti, la stanza d’analisi: pareti grigie, intima, luminosa, non c’è la chaise longue di Le Corbusier ma un sofà dove Recalcati fa sdraiare i pazienti e una poltrona alle spalle dove siede.
Siamo a Milano, nella poesia dei tetti e delle case di ringhiera di Brera, con un romantico terrazzino dove Recalcati e il vicino di un tempo, Paolo Mieli, si scambiavano i libri. Fuori sta diluviando, il Seveso sta esondando, la manifestazione per Gaza sta degenerando e la città sembra Mumbai nella stagione dei monsoni. Clacson che suonano freneticamente, fiumi d’acqua tra l’asfalto della strada e il marciapiede, motociclisti fradici, tassisti isterici. In una pace e armonia metafisica, Recalcati ed io, nella stanza d’analisi dove pratica da più di trent’anni, parliamo di amore, desiderio, felicità, inconscio, madri, padri, e maestri. Soprattutto di maestri perché è a loro che Recalcati ha dedicato l’ultimo libro, La luce e l’onda. Cosa significa insegnare (Einaudi). «Maestro è una parola e una figura in via d’estinzione – dice –. Il suo tramonto coincide con l’imporsi di un linguaggio disossato, informatizzato, senza più rapporti con la vita, subordinato al feticismo delle cifre, colonizzato dalla videocrazia e da una dimensione solo artificiale dell’intelligenza. La nostra scuola non respira bene. La sua esistenza è ridotta a quella di un asilo sociale o di un’azienda che dispensa informazioni. Il nostro tempo vorrebbe decretare la morte dei maestri nel nome di una riduzione della didattica a pura tecnica di apprendimento. Bisognerebbe invece cambiare passo. Intanto restituire alla scuola la dimensione della luce. È questa dimensione che la figura del maestro custodisce. La trasmissione del sapere non avviene per accumulazione ma per illuminazione».
La metafora della luce e dell’onda è ispirata da uno dei maestri di Recalcati, Gilles Deleuze. Immaginiamo una spiaggia, nel mare mosso un istruttore insegna a un bambino a nuotare. L’istruttore mima la rana, il delfino, la farfalla, e il bambino ripete nel modo più fedele possibile i gesti del suo maestro. Ma è questo che definisce il processo di apprendimento e formazione? «Manca qualcosa di essenziale che deve ancora accadere – spiega Recalcati –. E finalmente accade quando il maestro spinge con decisione il bambino contro l’onda che si sta infrangendo verso la riva. È solo l’impatto con il reale dell’onda che può scuotere l’allievo dal suo torpore imitativo costringendolo ad assimilare singolarmente il sapere sino ad allora compreso solo astrattamente». L’onda è «il reale anarchico», è l’imprevedibile e ingovernabile della vita che scombussola l’apprendimento scolastico: « L’obiettivo fondamentale di ogni processo di formazione non può ridursi ad essere la replica del sapere del maestro, perché scaturisce sempre da un salto singolare, da un impatto con l’incalcolabile e l’imprevedibile che l’onda rappresenta». Ma imitare il maestro è solo il primo passo. «È necessario – prosegue – uno strappo, una deviazione, una audacia come quella che il bambino sulla spiaggia deve mostrare nel suo fronteggiare in solitudine l’urto imprevedibile dell’onda. Bisogna abbandonare l’illusione scolastica che apprendere sia davvero fare perfettamente come fa il maestro. L’idealizzazione monumentale dei maestri tende a paralizzare la nostra iniziativa rendendo impossibile un gesto di creazione. Se è sempre necessario fare con dei maestri è altrettanto necessario non fare come loro, ma trovare l’imperfezione singolare che caratterizza il nostro stile. È quello che Lacan diceva ai suoi allievi, mentre li ammoniva di non scimmiottarlo: “fate come me, non imitatemi!”».
Nella vita di Recalcati i maestri non sono mancati e sono stati incontri per lui decisivi che hanno determinato il corso dell’esistenza: Giulia Terzaghi, giovane insegnante di lettere nell’istituto tecnico di Quarto Oggiaro, Franco Fergnani, professore di filosofia morale alla Statale di Milano. E poi, in un’estate afosa del 1985, nella biblioteca Sormani, l’incontro con i libri di Lacan perché «tra gli incontri che hanno contribuito alla nostra vita ci sono sicuramente i libri che abbiamo letto. Ma nella vita contano forse ancora di più gli incontri mancati, gli incontri ai quali non abbiamo risposto».
È comunque il desiderio il vero motore che rende la nostra vita viva. E non è scontato: «Il desiderio è una potenza che allarga l’orizzonte della nostra vita. In fondo non è tanto importante avere una vita lunga. Importante è piuttosto avere una vita ricca, ampia, larga, una vita animata, scossa, resa più viva, dal desiderio. In questo senso il desiderio, se si vuole dire così, serve a rendere una vita degna di essere vissuta. Il desiderio è una vocazione singolare, un’inclinazione o come un talento che accompagna la nostra vita sin dal tempo dell’infanzia. Gli incontri che facciamo possono rafforzare questa inclinazione oppure mostrarcene altre che non conoscevamo. Il desiderio è il contrario del discontinuo, della rincorsa affannosa di quello che illusoriamente ci farebbe felici. È una nostra vocazione. Il desiderio emerge così, come una nostra inclinazione singolare , un nostro talento».
Per Recalcati il desiderio non ha sempre bisogno del nuovo e il matrimonio non è condannato a essere il cimitero del desiderio: «C’è sempre nell’amore qualcosa che ci cattura non nonostante ci sfugga la chiave per possederlo ma proprio perche quella chiave ci sfugge senza scampo» . Lacan fa una riflessione sulla parola amour, che nella lingua francese porta con sé quella appunto del muro, di una parete che separa in modo inesorabile e non ci dà la chiave per possederlo: «La domanda dell’amore è ancora, encore. Contiene l’infinita domanda di ripetizione che ispira l’incontro d’amore. L’amore non è niente se non i suoi atti. Darsi, donarsi, tuffarsi, saltare nel vuoto, disarmarsi». Il nostro tempo non ha più idea della durata. Consuma ogni cosa in tempi sempre più rapidi. La bellezza della durata consiste invece nel pensare che il tempo non ci allontana dall’inizio – dal primo bacio, dal primo incontro – ma lo sappia rinnovare, sappia restare fedele al tempo dell’evento, al tempo dell’inizio.
Recalcati crede nell’amore ma non nella felicità come condizione dell’essere umano: «Non siamo fatti per la felicità ma per le possibilità della gioia. La gioia non è uno stato dell’essere ma un’esperienza. Possiamo fare un’esperienza di gioia, guardando nostro figlio o il mare. Per questo è fuorviante la definizione che l’Oms fa della salute mentale come stato di completo benessere fisico, sociale e psicologico».
Quando Recalcati incontra i genitori dei suoi pazienti non si concentra su quanto siano stati tra di loro in armonia rispetto al loro ruolo di genitore ma quanto quel figlio sia stato desiderato: «Il figlio non può e non deve essere divorato dalle aspettative familiari. Ogni figlio ha un desiderio singolare. E desiderare i figli è anche desiderare di perderli». Recalcati nega di essersi occupato più di padri che di madri. «Alla madre ho dedicato un libro, Le mani della madre. Quello che io chiamo madre non corrisponde necessariamente alla madre reale intesa come la genitrice biologica del figlio. Madre al pari di padre sono figure che trascendono il sesso, il sangue, la stirpe e la biologia. Io credo nell’utilità di differenziare la funzione materna da quella paterna, ma non credo che queste funzioni debbano coincidere con delle realtà anatomiche. Sono funzioni psichicamente differenti: madre è il nome della cura che sa ospitare la singolarità del figlio, che sa non essere anonima. Padre è il nome del simbolo della legge, del limite, di ciò, come diceva Lacan, che unisce e non oppone il desiderio alla legge».
L’incontro si conclude. Rifletto se ci sia stato il taglio, la figura, il pensiero da portar via con me, a casa. Scendo le scale e non vedo alla scrivania la segretaria Asia. È precisamente questo l’attimo in cui il mio sguardo si posa sul tavolo colmo di libri e ne riconosco uno, di Matteo Nucci su Platone, che accende il mio desiderio. E ora che faccio: lo prendo ?