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2 Gennaio 2023“Radicalità è andare alla radice delle questioni”: il ruolo di Franca Ongaro nella rivoluzione basagliana
di Eugenia Campanella
Il nome di Franco Basaglia è immediatamente associato alla parola manicomio. Non è un caso che la Legge 180 sia conosciuta come legge Basaglia: la chiusura dei manicomi in Italia parte infatti dall’esperienza che un giovane psichiatra veneziano mette in atto a Gorizia, dove viene mandato a dirigere il manicomio locale.
Lo straordinario carisma e l’incredibile intelligenza di Franco Basaglia, forse uniti al prestigio sociale che la professione di medico aveva (e in parte ha ancora), hanno permesso che il suo nome rimanesse vivido nella memoria anche di chi non si occupa di salute mentale.
Il tempo, però, sembra far sbiadire il ricordo sia della portata rivoluzionaria dell’opera basagliana, sia il contesto e le persone che hanno lavorato insieme a lui nel cercare di cambiare un mondo: Basaglia, infatti, era immerso in un clima culturale e politico ricco, circondato da persone in grado di portare avanti l’utopia della realtà che aveva in mente. E una delle persone più importanti in questo contesto rivoluzionario è stata, senza alcun dubbio, Franca Ongaro, sua moglie dal 1953.
Per provare a raccontare chi è stata Franca Ongaro Basaglia si può partire dal suo ultimo saggio, letto al pubblico il 27 Aprile 2001 in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Scienze Politiche dall’università di Sassari. Parlando dell’importanza della radicalità, Ongaro scrive:
[…] porsi il problema prioritario della disuguaglianza e del conflitto che essa produce come radice con cui confrontarsi.
Radicale è un termine che torna spesso negli ultimi lavori di Franca Ongaro e – parafrasando le sue parole – significa andare alla radice delle questioni, mettendo a nudo la retorica che vede la radicalità come una pratica intransigente e per questo utopistica, irrealizzabile quando si scontra con la realtà.
Quello che accade a Gorizia dal 1961 in poi è, invece, molto lontano dall’utopia ed estremamente ancorato a una realtà cruda e nascosta come era quella dei manicomi.
Franco Basaglia arriva a Gorizia come nuovo direttore dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale, dopo una difficile esperienza come accademico all’Università di Padova dove non godeva di grande fama e stima da parte dei suoi colleghi per via di idee e pensieri che, seppur si svilupperanno maggiormente nella sua esperienza successiva a Gorizia, erano già chiaramente rivoluzionari. Gorizia era, infatti, una punizione e un esilio: confinato nel manicomio più periferico d’Italia, i cui muri coincidevano con il confine tra Italia e Jugoslavia.
Quella che sembrava una punizione, sancisce, invece, un processo rivoluzionario unico, che mostrerà come il rovesciamento di una realtà passi necessariamente dal dissotterrare le radici e non ci sia nulla di più pragmatico del desiderio di cercare le origini di un sistema mal funzionante per rivoluzionare ciò che sembra immutabile. E se con rivoluzione si intende uno sconvolgimento dei costumi e delle abitudini, quella basagliana lo è stata sicuramente, a partire dalla scelta di Franco Basaglia di rifiutarsi di firmare il registro degli internati legati al letto la notte precedente, prassi istituzionalizzata allora e ancora lontana da essere abbandonata oggi.
Da quel rifiuto, da quel “E mi no firmo”, l’idea di manicomio inizia a sgretolarsi a colpi di pratiche di cura mai viste nell’istituzione totale manicomiale, perché, come sottolinea Basaglia stesso, l’unica strategia possibile per scardinare il pessimismo della ragione che vede il manicomio come un male necessario è quella dell’ottimismo della volontà di gramsciana memoria. Volontà che si traduce in pratiche che funzionano, che creano le condizioni per far rifiorire la salute mentale delle persone e dare un senso alla pratica clinica.
Proprio la parola “pratiche”, che così spesso ritorna, sottolinea due aspetti importanti del percorso che hanno poi portato alla Legge 180. Prima di tutto emerge la consapevolezza che le pratiche di cura in psichiatria avvengono all’interno di relazioni all’interno e all’esterno dell’ospedale, ed è quindi cambiando le pratiche che cambia la relazione. In secondo luogo, come raccontato in uno splendido articolo di Internazionale, Franco Basaglia non era una sorta di San Francesco dei matti, così come non le persone che facevano parte della sua équipe, a partire da sua moglie Franca Ongaro. Al contrario Basaglia era un intellettuale – forse il più grande intellettuale del 900 in Italia –, un medico che metteva al centro del suo mondo l’individuo come parte di una collettività.
Questa immagine di Basaglia, come uomo, medico e intellettuale, emerge chiaramente in un’intervista di Sergio Zavoli che entra in manicomio e gli chiede se sia più il malato o la malattia a interessargli. E la risposta è senza esitazione “il malato”, la persona.
Nel lungo processo di sviluppo, dibattito e attuazione di una nuova visione della salute mentale una protagonista assoluta e troppo spesso dimenticata è stata Franca Ongaro Basaglia. Lo è stata come compagna di vita e di lotte di Franco Basaglia, uomo con cui ha condiviso una scelta che non è stata solo professionale, ma anche politica e familiare. La figlia Alberta, a sua volta diventata psicologa, ricorda come la scelta dei genitori abbia avuto un impatto profondo anche sulla sua vita di bambina a contatto con la sofferenza psichica e come la rivoluzione basagliana sia stata vissuta e partecipata da entrambi i coniugi, portata avanti anche grazie all’instancabile lavoro di Ongaro nel trascrivere gli appunti di Basaglia e discutere quello che accadeva nel manicomio. Scrive Ongaro: “So che ogni parola scritta era una discussione senza fine con lui per farmi capire meglio”, mettendo in luce la compenetrazione della relazione affettiva con la dimensione politica, in un intreccio fecondo dove entrambi erano autonomi e partecipi. Per Ongaro, infatti, il conflitto è alla base del cambiamento, dalla dimensione personale e familiare fino a quella sociale.