l’intervista
Massimo Ammaniti
Sono stati chiamati gli sdraiati, ma anche gli svogliati, i poltronisti, i divanisti: sono così pigri e imbelli i nostri ragazzi, sommersi da coccole, da privilegi e da vizi, senza che nessuno esiga mai da loro alcuna virtù? Oppure, al contrario, i nostri giovani sono trascurati, non capiti e soprattutto non compresi nel loro linguaggio che non è detto sia verbale ma comportamentale? In verità il problema siamo noi adulti che non riusciamo a decifrare i Paradossi degli adolescenti (Raffaello Cortina): è questa la risposta che ci restituisce nel suo ultimo libro lo psicoanalista e psichiatra Massimo Ammaniti, uno dei maggiori esperti dell’età più difficile e più verde. Esistono modalità lessicali ed espressive giovanili con cui i genitori e i docenti fanno fatica a confrontarsi e che stentano a decrittare. Ammaniti quando parla degli under venti si appassiona e si accalora. E questo da sempre, fin dalla fine degli anni ’60, quando usciva fresco dalla Facoltà di Medicina con la specializzazione in Psicopatologia dello sviluppo (di cui è professore onorario a La Sapienza).
Gli adolescenti di oggi sono più felici o infelici di quelli di un tempo, di quei ragazzi che lei metteva sotto la lente negli anni dei suoi esordi?
«Vi sarebbero attualmente tante premesse per un mondo giovanile molto gratificato. Oggi gli adolescenti godono di più libertà e di maggiori vantaggi. Fino all’inizio degli anni ’70, fino all’esplosione della contestazione giovanile, erano sorvegliati e controllati. I genitori prendevano molte decisioni al posto dei figli, dalla scelta della professione e del lavoro all’abbigliamento. Adesso gli adolescenti escono e fanno le ore piccole senza render conto a nessuno, viaggiano da soli, schivano e intimoriscono padri e madri accondiscendenti, vivono le prime esperienze sessuali senza essere ostacolati dai pregiudizi e dai freni inibitori. Hanno anche più disponibilità economiche».
E allora, da dove nasce la loro insoddisfazione?
«Esistono nell’adolescenza paradossi di cui non ci rendiamo conto. I nostri ragazzi sono colpiti da una forma di “malaise existentiel” come quella di cui discettavano i filosofi esistenzialisti. Le famiglie hanno meno figli, li hanno in età più avanzata ed esiste una maggiore partecipazione dei genitori alla crescita dei bambini, in particolare il papà è più presente. Il piccolo sviluppa la consapevolezza della propria centralità all’interno del nucleo familiare. I genitori diventano complici e amici, loro stessi si percepiscono come una specie di estensione dei ragazzi. Ma l’adolescenza è l’età dei dubbi e delle insicurezze sull’identità sessuale, è il periodo della difficile accettazione del proprio corpo. Per i ragazzi è arduo scegliere da soli. Appare l’agorafobia in una situazione troppo aperta in cui non esistono limiti oppure i confini non sono chiari. I diktat parentali dovrebbero servire come bussola. Dovrebbero orientare non tanto all’obbedienza quanto anche alla ribellione. Il contrasto dei genitori o della scuola, però, non deve esprimersi sotto forma di divieti e di proibizioni ma sotto forma di dialogo e di confronto».
Gli adolescenti sono estremamente sensibili alle influenze dell’ambiente?
«Certo, lo sono a livello psicologico, ma anche a livello cerebrale. Molte ricerche neurobiologiche hanno messo in luce che, soprattutto nelle prime fasi dell’adolescenza, vi è una forte attivazione del cervello emotivo da parte degli ormoni che vengono messi in circolo durante la pubertà. Questa attivazione comporta alti e bassi dell’umore, reazioni di rabbia e di violenza, sensazioni di vuoto e di impotenza, abbattimento fino alla depressione e pure al suicidio».
Il gruppo dei coetanei aiuta a crescere?
«È un’occasione positiva per uscire dalla famiglia. Ma è anche un coacervo di paranoie e di terrore in cui si intrecciano l’invidia, la competizione, la gelosia, l’eccitazione sessuale, il rifiuto e il senso di esclusione. Nel branco convivono il leader carismatico e il capro espiatorio. Gli adolescenti, anche quando sono soli nella loro cameretta, pensano sempre al gruppo. L'”uniformismo” spinge ad agire come gli altri, in modo conformistico. Così cresce il senso di abbandono: sono “imparanoiato”, è un frequente modo di dire e altrettanto frequente è il bullismo nelle scuole tra i 13 e i 14 anni. Anche le droghe, spesso utilizzate per vivere esperienze di eccitazione, di sballo e complicità, sono spesso attraenti per il gruppo».
La diffusione e soprattutto l’uso intensivo degli smartphone – si parla addirittura di otto ore al giorno – che ruolo svolgono?
«Isolano l’adolescente, lo privano del confronto umano. Non bisognerebbe concederne l’uso prima dei 12 anni. Per via dei social media i coetanei si frequentano meno, cercano meno esperienze sentimentali e sessuali, fanno meno attività sportive. Passano ore e ore a chattare con gli smartphone. Chat, videogiochi e sexting, inoltre, permettono di andare al di là delle esperienze abituali per avventurarsi in dimensioni impreviste dove si possono fare incontri anche molto allarmanti».
Come mai in tutti questi anni lei non ha mai abbandonato il tema adolescenziale?
«I ragazzi mi hanno sempre arricchito, sono in grado di sollecitare in noi adulti stupore, sorpresa, curiosità, meraviglia e di far emergere quella che chiamerei una verità più intima, non tanto a parole quanto piuttosto nel modo di presentarsi, di comunicare. E poi c’è il loro radicalismo. Per esempio, l’occupazione delle università in America e in Europa, è importante. Oltre le convinzioni politiche, esprime una scelta senza mezzi termini o compromessi che può sollecitare anche notevoli cambiamenti. Lo ripeto: serve il ragionamento, la spiegazione e non i manganelli o le irruzioni poliziesche. I ragazzi vedono tutto a tinte nette e forti, o bianco o nero. Solo successivamente capiranno che esistono le sfumature».