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Le disuguaglianze economiche non sono più una questione statistica: sono diventate un fattore che mina la coesione sociale e la stessa tenuta democratica. Da oltre vent’anni, la concentrazione della ricchezza avanza a ritmi senza precedenti: una minima parte della popolazione accumula quasi tutto il nuovo valore prodotto, mentre la metà più povera resta ferma o arretra. È un fenomeno planetario, ma che in Italia si manifesta con chiarezza: salari stagnanti, precarietà crescente, lavoro che non garantisce più dignità né mobilità sociale.
Non è solo una questione di numeri, ma di senso. Le democrazie moderne si reggevano su un patto implicito: chi lavora e partecipa alla vita collettiva ottiene riconoscimento e stabilità. Oggi quel patto è in crisi perché il modello economico dominante si è separato dalle sue radici sociali. La competizione globale, senza regole e senza limiti, ha concentrato potere e ricchezza in pochi centri, lasciando intere comunità in una condizione di fragilità permanente.
Redistribuire a valle non basta più se a monte il valore viene prodotto distruggendo relazioni, ambiente e capitale sociale. Bisogna ripensare il modo stesso in cui la ricchezza nasce e circola. È in questa prospettiva che si inserisce il nuovo Piano per l’economia sociale promosso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ora in fase di consultazione pubblica. L’obiettivo è ambizioso: costruire un’economia che non separi produzione e redistribuzione, ma generi da subito valore condiviso, radicato nei territori e capace di coniugare impresa, lavoro e comunità.
Il Piano definisce un quadro di interventi lungo quattro assi principali.
Il primo riguarda le regole: riconoscere pienamente il ruolo delle imprese sociali, cooperative e fondazioni che operano per finalità civiche e ambientali, semplificando la normativa e rafforzando la trasparenza.
Il secondo è la finanza, chiamata a uscire dalla logica estrattiva di breve periodo per sostenere investimenti pazienti, mutualistici e territoriali. Si parla di fondi dedicati, garanzie, misurazione dell’impatto e utilizzo strategico degli appalti pubblici come leva per lo sviluppo sostenibile.
Il terzo asse è la formazione, indispensabile per rendere la Pubblica Amministrazione e gli operatori capaci di gestire nuovi strumenti e nuove forme di collaborazione tra pubblico, privato e terzo settore.
Infine, il quarto riguarda le partnership: rafforzare i legami tra imprese a scopo di lucro ed enti sociali per costruire catene di valore più eque, innovative e durature.
Due sfide attraversano trasversalmente tutto il Piano: l’intelligenza artificiale e la finanza. Entrambe possono ampliare le disuguaglianze o ridurle, a seconda delle scelte politiche e istituzionali. L’IA può diventare strumento di controllo e concentrazione del potere, oppure tecnologia civica capace di diffondere conoscenza e autonomia. La finanza può restare motore di rendita o trasformarsi in alleato delle transizioni ecologiche e sociali. Non c’è neutralità: le decisioni contano.
Il messaggio di fondo è chiaro. L’economia sociale non è un settore marginale, ma un laboratorio politico e produttivo da cui può ripartire un nuovo equilibrio tra crescita, democrazia e giustizia. Se la ricchezza continua a salire verso l’alto e la fiducia collettiva a scendere, non sarà solo una società più ingiusta, ma anche più fragile.
Il tempo delle correzioni a posteriori è finito. Occorre cambiare le regole del gioco, restituendo al lavoro, alla comunità e alla cura del mondo condiviso il loro valore originario: quello di generare futuro, non scarti.





