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2 Gennaio 2023Dibattito L’analisi di Giuseppe De Rita evidenzia le conseguenze di una decadenza dovuta alla distruzione della scuola
Il Paese ha bisogno di una nuova classe dirigente colta per uscire da una mediocrità mortificante
di Andrea Carandini
Il 2022 è finito in uno sbalordimento generale. Ma sarebbe vano perdere la testa negli illimitati problemi del Globo; dobbiamo anche concentrarci, in un soprassalto di coscienza, sulla realtà del nostro Paese. A questo proposito raccolgo prima una frase di Moravia del 1975. «A Roma non c’è una società borghese…» (Autori Vari, Contro Roma, Laterza, 2018): campana che rintocca proprio in questi tempi nei quali ho perso ogni illusione sulla mia amatissima città. Raccolgo l’intervista recente di Massimo Franco a Giuseppe De Rita («Corriere della Sera», 31 dicembre 2022).
Per De Rita l’Italia non cresce perché rimane mediocre, anche se la mediocrità non è solamente un male: se non altro perché toglie spazio ai grandi guastatori… La causa è che ci siamo consumati la classe dirigente, che pur avevamo, e che la classe media non è riuscita a diventare borghesia (Pasolini riteneva che l’Italia non sarebbe diventata mai borghese perché rimaneva piccolo-borghese). Ci vorranno cinquant’anni — scrive De Rita — per creare una neoborghesia media e alta. Mancano oggi i punti di riferimento che siano esiti sintetici di un pensiero dialogico. Abbiamo in cambio l’insopportabile frastuono di opinioni opposte agitate negli shakers televisivi (meglio i vecchi barman e i cocktails).
Connetto le due riflessioni e penso. La Chiesa cattolica è sempre stata antiborghese perché i borghesi veri — non i traditori di libertà, uguaglianza, fraternità — sono stati liberali, quindi antifascisti e non clericali, come De Gasperi che resistette a Pio XII. Il Pci da una parte sosteneva una strisciante lotta ideologica di classe, eppure dall’altra — fino agli inizi degli anni Sessanta — teneva in massima considerazione l’alta cultura borghese e non vedeva emancipazione possibile dei ceti popolari se non tramite essa (Gramsci si riferiva a Croce, Marchesi salvava il latino…). Assecondavano il Pci vari socialisti e azionisti. Il liberalismo di sinistra — ma può esistere un liberalismo che non sia riformatore? — è stato ucciso dal liberalismo di destra di Malagodi, dall’inclinazione a un progressismo democratico poco liberale, dalla concentrazione (pur meritoria) del nuovo Partito radicale sui soli diritti civili e dall’avvelenamento del liberalismo di Berlusconi autoproclamatosi liberale (strizzando l’occhio allo zar).
Esito di tutto ciò: a destra essere liberali equivaleva a sostenere i propri interessi ottenendo consenso con la nuova demagogia, il populismo; a sinistra essere progressisti equivaleva ad essere poco liberali e molto democratici e anche populistici, perdendo il popolo e dimenticando che non vi è democrazia al di fuori della «liberal-democrazia», forma mista di libertà e di giustizia bilanciate nella fratellanza: una virtù della rivoluzione francese.
De Rita sostiene che l’Italia non riparte perché è mancato fino ad ora uno shock dalla sufficiente forza d’urto. Ma la questione è forse più grave: l’abbassamento culturale dovuto alla distruzione della scuola fondata un secolo fa — opera di tutte le forze politiche — ha raggiunto un punto tale per cui pochi sono coloro che si accorgono del grande shock subìto nell’ultima generazione: la morte in Italia dell’alta cultura umanistica come uno dei massimi riferimenti ideali (sull’alta cultura scientifica non saprei pronunciarmi). L’alta cultura umanistica si è ritirata sempre più, prima dalle aspirazioni del popolo, poi dai desideri dei piccolo-borghesi e infine anche dallo stesso ceto medio, distratto, godereccio e senza gravitas. Sì, esistono i ricchi, sempre più tali, ma sono sempre meno capaci di signoreggiare emozioni e ragioni, natura e storia (i giovani facoltosi vanno all’estero, ma non si accorgono che in Occidente quasi ogni luogo è Paese: si veda lo sfacelo della Gran Bretagna, un tempo esemplare). Le classi dirigenti dell’ultima generazione — dopo aver facilitato tutto per raccogliere consenso, capaci di assecondare le masse, ma incapaci di trasformare i sudditi in cittadini — si sono beatamente suicidate innanzi tutto strozzando l’alta cultura, mortificando la ricerca e impedendo ai disagiati di accedervi.
La mediocritas è buona se è aurea, se cioè è l’anticamera dalla quale s’intravede, nella camera, qualche pagliuzza d’oro; altrimenti è generatrice di decadenza. Ci vorrebbe una rivolta dei giovani — salvando i beni e scartando i mali del 1968 — ancora in grado di fare il seguente ragionamento: la cultura umanistica è sì inutile ma serve a formare la mente che pensa seguendo principi logici e che con essi tempera le emozioni. Invece noi pensiamo male attraverso una lingua degradata, che molti non sanno scrivere e comprendere… Il momento dell’utile deve venire, ma in un secondo momento, proprio come l’inutilità umanistica deve essere preceduta da quella dei giochi… Il problema è che la decadenza non è soltanto fuori di noi, nell’ambiente indissolubilmente connesso al paesaggio; sta innanzitutto nella mente, che ha subìto oramai notevoli e irreparabili danni cognitivi. Infatti i cervelli o si formano al momento giusto, tra le elementari e le medie, o rimangono danneggiati… Ci troviamo pertanto nella situazione paradossale di doverci tirare fuori dal pantano senza avere più abilità e strumenti per farlo. Stiamo sprofondando nell’analfabetismo di ritorno e dovremmo al tempo stesso rifondare la scuola per il prossimo secolo: 2023- 2123!
Qualche lembo di buon retroterra esiste ancora da noi — non macerato dal presentismo che tutto inghiotte (i salotti dei ricchi sono o troppo pieni di cose nuove o vuoti come sale operatorie). Se i migliori maestri e professori si risvegliassero in una speranza rifondativa, se le associazioni non-profit si aprissero di più al sussidio educativo, se avessimo un embrioncino, anche non eccelso ma degno, di classe dirigente, allora sì che potremmo farcela: tra una generazione sarà tardi.
Ogni strato sociale ha la sua dignità nel pluralismo della società: artigiani, contadini, operai, tecnici, piccolo-borghesi, borghesi medio-alti e aristocratici… Nessuno deve vergognarsi per le origini, a meno che ne abbia perso le virtù. Io stesso sono stato indotto da giovane a vergognarmi della mia nobiltà e soprattutto dell’alta borghesia, seppure entrambe critiche. Ciò alla neoborghesia medio-alta che speriamo rinascerà — fra cinquant’anni — non dovrà più succedere, proprio a partire dalla nostra esperienza storica. L’importante è che si possa scivolare in avanti, così come indietro, nella scala sociale in ragione del merito e non del privilegio. E soprattutto, se si presenterà da noi qualche dittatura, magari anche elettiva, quel ceto dirigente del futuro non dovrà più cedere i princìpi temendo di perdere il capitale, come purtroppo è avvenuto nel secolo scorso.