“Voleva essere pronta a ogni costo, pronta per quel film che non si sarebbe mai fatto”. Sono gli sforzi estetici di Madame, Norma Desmond, in Viale del tramonto (Sunset Boulevard), capolavoro di Billy Wilder. Ex diva del muto, Norma deve sembrare giovane, tornare sul set, piacere a tutti come una volta, quando lei e Rodolfo Valentino si contendevano gli schermi. Ma siamo nel 1950 e il cinema è sonoro: tutto è cambiato.
Come sono tristi, gli sforzi di chi non ha accettato i cambiamenti, di chi ha sovrastimato sé stesso al punto da impedire un seguito. Ma come può essere interessante, il lavoro culturale attorno a queste sontuose decadenze. Sempre che, naturalmente, ci sia qualcuno capace di cogliere l’occasione, di decifrare le spoglie. Anche la putredine vuol essere raccolta con una certa eleganza, e la letteratura moderna dovrebbe averlo imparato, almeno da Una carogna di Baudelaire. Il film di Wilder ci riesce, a partire dalla scena barocca col funerale di una scimmia, chiusa in una bara da bambino. Il problema di quando si guarda troppo indietro, è non riuscire a guardare avanti. D’altra parte – cinema nel cinema, molto prima di Effetto notte di Truffaut –, la parodia di Charlot con la musica deformata e la presenza di un Buster Keaton decrepito, immobile in un bridge, sono cammei inestimabili.
Dev’esserci una ragione, che ci sfugge, per cui il cinema italiano non è mai riuscito a fare la storia di sé stesso così bene. E la ragione potrebbe essere imparentata con l’abitudine italiana ai misteri irrisolti, agli archivi segreti, ai cadaveri negli armadi. In compenso, la cifra della società dello spettacolo all’italiana ha dato all’umanità alcune cattive lezioni. Si vede da come, in questo giugno vivace, un magnate del mattone e dell’intrattenimento vuole inscenare la sua resurrezione dalle ceneri. Gli notificano un’accusa penale, fa appello al popolo e dice che lui sì, rispetta la legge; pur di cercare una ricandidatura, è pronto a mentire come un pubblicitario.
Una diva soffre male l’invecchiamento. Che voglia un riscatto, un’estrema rivincita, un grande ritorno, si può capire. E nulla di strano che, insieme, nasca un amore semisincero e molto nervoso, naturalmente per una persona più giovane. Proprio come farebbe – si fa per dire – un miliardario che si circondasse di compagnie a pagamento. Con la differenza che il povero sceneggiatore, in Viale del tramonto, varrebbe pur qualcosa per Hollywood, e poi non si è fatto sposare per finta.
Certo, c’è più amore vero nel cuore di un altro personaggio, Max von Mayerling, l’ex marito della diva diventato suo maggiordomo. Nel film, ha un interprete d’eccezione: nientemeno che Erich Oswald Hans Carl Maria von Stroheim. E qui la cosa si fa complicata, grandiosa e insieme assurda: Stroheim (senza tutto il resto), disertore austriaco nella grande guerra, diventato americano, figlio di un oscuro bottegaio, falsificò la sua persona passando per un nobile di stirpe germanica e per un implacabile ufficiale di cavalleria, ma fu per davvero un eccellente regista del cinema muto, e infine un attore, più che altro di sé stesso: esilarante in un’interpretazione del 1943 del generale Rommel, nei Cinque segreti del deserto. Vita di spettacolo, spettacolo della vita, finzione e verità e beffa e genio e non si sa cos’altro. È lui, da maggiordomo, a riassumere in una frase le glorie del cinema muto, e insieme quelle della belle époque, all’aurora del “secolo breve”: “Madame riceveva diciottomila lettere di ammiratori alla settimana; gli uomini pagavano il suo parrucchiere per una ciocca dei suoi capelli; ci fu un maragià che venne dall’India per avere una delle sue calze di seta. Quando la ottenne ci si strangolò”.
Quanta differenza, coi nostri tempi prosaici. Certi personaggi che passano per leggende non sono degni di essere paragonati con queste figure d’eccezione. Chi oserebbe mettere la Bella Otero o Mata Hari accanto a una delle annunciatrici di Italia Uno? Rivedere una qualsiasi, di quelle bellocce degli anni Ottanta, significa piangere lacrime amare su questo tempo disadorno e interminabile.
“Insomma, Norma, tu stai recitando a una platea vuota. Il pubblico se n’è andato”; sono parole dello sceneggiatore squattrinato, nel film, ma potrebbero non essere solo sue. Del tutto per caso, la diva ingombrante si chiama Norma, cioè legge. La legge è un concetto così indigesto, in genere, a chi detiene il potere; e poi, diventa assolutamente insopportabile, in particolare, a chi usa il potere insieme all’immagine perenne di sé stesso, delle sue glorie, dei suoi piaceri.
Questa coincidenza esponenziale fra arbitrio e spettacolo ci interroga senza scampo: quale rapporto morboso corre fra il re e il suo palcoscenico? È l’applauso, a rendere plausibile il re, oppure è lui, a comprarsi gli applausi con le elemosine? Uno spunto per la risposta è nelle ultime parole, proprio quelle di Norma: “Non esiste altro: solo noi e la macchina. E nell’oscurità il pubblico che guarda in silenzio. Eccomi, sono pronta a dare il mio primo piano”. Il silenzio del pubblico è il patto segreto, la chiave di ogni velenosa voglia di padrone.
Per tutte le grandi dive, viene il momento di una proposta offensiva. Accadde anche preparando Viale del tramonto, quando una stella che si credeva ancora irresistibile si sentì offrire la parte di Norma e rifiutò. Di solito, per le attrici, i capricci arrivano con la parte della madre. Per un politico, il momento potrebbe essere il ruolo del “padre nobile”, del kingmaker, anticamera dell’addio.
L’ultimo film muto girato da Stroheim, negli anni Venti, era stato interrotto perché la produttrice-attrice l’aveva cacciato via. E chi era stata, la crudele, la femme fatale? Ma Gloria Swanson, diva e imprenditrice, che si vede in Viale del tramonto: impersona proprio Norma. Insomma, nel 1950 Stroheim, da attore, deve fingersi un ex marito, ancora innamorato e degradato a domestico, della donna che ha distrutto, ma per davvero, la sua carriera di regista. Sono finzioni spietate a cui la politica ci abitua, e si possono vedere in parlamento come in televisione o in una cattedrale.