Quando, nell’autunno del 417 d.C., l’ex prefetto di Roma Claudio Rutilio Namaziano lasciò l’Italia per fare ritorno nei suoi latifondi della Gallia Narbonese, devastati dalle incursioni dei barbari, la sua fiducia nell’eternità dell’impero era poco più che l’ostinato aggrapparsi alle macerie di un mondo che si sgretola: erano trascorsi 1169 anni dalla fondazione dell’Urbe, e ne mancavano soltanto poche decine alla sua «caduta senza rumore», secondo la celebre definizione di Arnaldo Momigliano. Uomo di odî violenti almeno quanto le sue passioni, all’inizio del secondo libro del De reditu suo – il poemetto in cui descrive il suo ritorno via mare verso la patria – Rutilio scaglia un terribile attacco contro Stilicone, il generale vandalico che fino a pochi anni prima era stato il plenipotenziario dell’imperatore d’Occidente Onorio: fra le innumerevoli colpe a lui ascritte, la più grave è aver ordinato di bruciare i libri Sibillini, antichissima raccolta di responsi conservata presso il tempio di Apollo sul Palatino a cui era legata la promessa del destino immortale dell’impero. Devoto cultore del passato di Roma, è quindi a un delitto contro la religio tradizionale – e contro la memoria – che Rutilio lega «il precipitare dei fusi pieni», la rovina che incombe sulla città.
Nel 408 d.C., pochi anni dopo aver distrutto i libri della Sibilla, Stilicone venne a sua volta destituito e giustiziato dall’imperatore, e il suo nome, in conseguenza dell’irrogazione della damnatio memoriae, venne eraso da iscrizioni e monumenti; ma per certi versi simile fu la sorte dello stesso De reditu, che trovò spazio in una silloge di opere ‘di cerchia’ accomunate dall’impronta pagana e filosenatoria, sopravvivendo a un oblio millenario grazie a un unico testimone manoscritto che – già mutilo – andò disperso dopo la sua riscoperta umanistica e risulta oggi irrimediabilmente perduto, con l’eccezione di due frammenti riemersi nel 1973 dalle spigolature bobbiesi di Mirella Ferrari.
L’intrecciarsi di queste tre vicende di (quasi) cancellazione dimostra che, al di là di ogni irenica illusione, «la cultura della critica, della rimozione, dell’eliminazione e del rigetto» – così l’ha definita in un suo recente intervento Alberto Asor Rosa – è inscritta da sempre nel codice genetico della civiltà occidentale; ed è anzi soprattutto nelle società antiche, quelle dell’epigrafe e del libro manoscritto, che le modalità di selezione, comunicazione e propagazione della parola scritta trasformano le pratiche di trasmissione della memoria in un campo di tensione.
Ciò risulta tanto più vero nel Tardoantico, epoca d’inquietudine in cui, almeno dal Verlaine di Langueur, la modernità non riesce a smettere di rispecchiarsi: oltre che a livello politico e istituzionale (campo, quest’ultimo, ben indagato un ventennio fa da Charles W. Hedrick nel suo History and Silence. Purge and Rehabilitation of Memory in Late Antiquity), in quest’età la battaglia fra parola e silenzio si gioca infatti anche su un altro terreno, quello del conflitto religioso. Fra IV e V secolo d.C. si assiste così non soltanto a un regime di concorrenza fra cultura pagana e cristiana – si pensi soltanto alla competizione fra élites nell’ambito dell’edilizia pubblica e monumentale –, ma anche a una vera e propria lotta per spegnere la voce della controparte. Se volessimo ricorrere a un neologismo utilizzato nel titolo di una relazione presentata nel novembre 2020 al workshop «Erasure in Late Antiquity», organizzato dal Trinity College di Dublino, potremmo definire il Tardoantico come l’epoca del ‘grammatoclasm’, dell’ossessione per la cancellazione delle parole.
Più che lo scriptorium – c’è anzi da stupirsi della silenziosa lealtà dei copisti cristiani, che per tutto il Medioevo trascrissero, generalmente senza espurgarle o apportarvi correzioni moralizzanti, anche le opere contrarie agli insegnamenti e ai principî della loro religione –, terreno privilegiato di contesa è la scuola, un’istituzione che, dopo le prime resistenze, fu accettata e fatta propria dai cristiani, pronti ad armarsi delle frecce del sapere retorico e filosofico per combattere la cultura dei loro oppositori. Ciò non avvenne senza contraccolpi: fra i più noti interventi normativi con cui l’imperatore Giuliano, nei suoi venti mesi di regno (361-363 d.C.), tentò di corroborare il suo progetto di restaurazione pagana, vi fu infatti il decreto che escluse dall’insegnamento i maestri cristiani, accusati di non poter spiegare degnamente le opere di Omero, Esiodo ed Erodoto senza credere agli dèi e alle Muse a cui quelli si erano professati devoti. Biasimata anche da un tradizionalista come Ammiano Marcellino e presto stralciata dalla legislazione, la limitazione della parrhesia dei grammatici fece tuttavia in tempo a propiziare una delle novità più significative del panorama letterario tardoantico: fu in quegli anni che Apollinare di Alessandria e suo figlio, intimi dei retori Libanio ed Epifanio, sperimentarono il trasferimento dei contenuti biblici nelle forme classico-pagane, componendo fra l’altro un poema epico sui libri storici dell’Antico Testamento e un rifacimento dei Vangeli a imitazione dei dialoghi platonici.
Come ammoniva già la vicenda dei libri della Sibilla distrutti da Stilicone, anche il Tardoantico – non diversamente dall’Atene di V secolo a.C. e dalla Roma di età flavia: l’ha istruttivamente ricordato un decennio fa Mario Lentano nel suo La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica (Liberilibri, Macerata 2012) – conobbe la più radicale delle forme di censura, la distruzione fisica delle copie librarie. A distinguersi in questo senso furono i cristiani, sia nel conflitto interno fra ortodossia e dottrine ereticali, sia negli ultimi scampoli della battaglia contro il sapere pagano. Tra i casi passati recentemente in rassegna da Catherine Nixey (Nel nome della croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri, 2018), il più significativo è probabilmente quello dei quindici libri Contro i cristiani di Porfirio di Tiro, massimo esponente della scuola neoplatonica: già proscritto da Costantino, il trattato fu condannato nel 448 d.C. con un decreto congiunto di Teodosio II e Valentiniano III, e tutte le copie esistenti vennero bruciate sul rogo.
Eppure anche in casi analoghi, per una di quelle astuzie della ragione che fanno la fortuna dei filologi, sono spesso le voci di contestatori e censori a tramandare la memoria di opere altrimenti cancellate dalle biblioteche. Così è proprio il mannello di frammenti e testimonianze dei Padri della Chiesa di IV secolo d.C. assemblato da Adolf von Harnack all’inizio del secolo scorso a consentire di farci un’idea della perduta opera di Porfirio; e almeno in un altro caso, è soltanto grazie alla replica approntata quasi riga per riga da un cristiano come Origene che è possibile ricostruire nel dettaglio un trattato anticristiano, il Discorso vero del medioplatonico Celso, altrimenti destinato all’oblio, e che invece – soprattutto grazie alle citazioni contenute in una fortunata antologia antica – scampò persino alla condanna delle opere dell’esegeta alessandrino, a loro volta messe al bando da papa Anastasio I nel 399 d.C.
«Ogni passato merita invero di essere condannato – giacché così vanno appunto le cose umane», affermava Friedrich Nietzsche nella seconda delle sue Considerazioni inattuali, dando espressione a una delle leggi più tenaci e al contempo scottanti del nostro rapporto con la storia. Viste da questa prospettiva, proprio le dinamiche culturali della società tardoantica si rivelano terreno privilegiato per indagare la lotta fra memoria e cancellazione del passato, fra ricordo e oblio; ed ecco allora che il celebre monito posto da Fredric Jameson ad apertura di uno dei suoi capolavori, The Political Unconscious: Narrative as a Socially Symbolic Act, leva ancora, per chi voglia farsene interprete, il suo ineludibile richiamo: «Always historicise!».