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12 Ottobre 2025
Teologi del ’900, innovatori dal volto umile
12 Ottobre 2025Ha aperto a Roma la nuova Quadriennale : 187 opere di 54 artisti e una mostra (preceduta da qualche polemica) sulla manifestazione del 1935. Quasi del tutto de-mussolinizzata
di edoardo sassi
Duemila metri quadrati di superficie espositiva, 187 opere di 54 artisti, viventi, e nessun riferimento diretto all’attualità o alla politica. Niente di niente. Anche la sessualità — tema spesso percorso o magari solo evocato nelle grandi mostre collettive di creatività contemporanea — quasi non c’è. O se c’è è trattata in maniera più apollinea che non dionisiaca. Sembra dunque voler scivolare via quieta, sul velluto dell’anti-polemica, la diciottesima edizione della Quadriennale d’arte di Roma, diventata maggiorenne (seria? responsabile?) con questa mostra appena inaugurata al Palazzo delle Esposizioni, dove si potrà visitare fino al 18 gennaio.
Le polemiche, proprio a volerle cercare (e ci sono state mesi fa, al primo annuncio) sono confinate al piano di sopra, dove è stata allestita una mostra collaterale e autonoma dedicata ai novant’anni dalla Quadriennale del 1935, la seconda edizione in assoluto (la prima fu nel 1931), allestita in pieno fascismo. Ma anche lì si troveranno al massimo riproduzioni di Giuseppe Bottai e altri gerarchi o di re Vittorio Emanuele III il giorno della solenne inaugurazione. Mai — a parte una fotina in bacheca — l’effigie di Benito Mussolini, che pure nell’edizione originale troneggiava ripetutamente tra ritratti, slogan gigantizzati e glorificazioni di bonifiche delle paludi pontine.
Così dunque, nettamente separate dal magniloquente scalone dell’edificio tardo ottocentesco progettato da Pio Piacentini (padre del più noto Marcello), convivono rievocazione storica e arte contemporanea, quest’ultima affidata allo sguardo e alle conseguenti scelte di cinque curatori diversi l’uno dall’altro: Luca Massimo Barbero, Francesco Bonami, Emanuela Mazzonis di Pralafera, Francesco Stocchi e Alessandra Troncone. I quali a loro volta, ognuno in autonomia e senza mai confrontarsi tra loro, hanno selezionato un numero di artisti che oscilla tra nove e tredici.
Con l’ambizione, ormai da anni, di assumere un taglio sempre più «curatoriale» e meno da Salon di tradizione ottocentesca (fino agli anni Settanta alla Quadriennale esisteva anche un ufficio vendite, dove i privati, non solo le istituzioni, potevano comprare ciò che era esposto) anche questa edizione si presenta dunque come una sommatoria di singoli sguardi: quelli dei curatori e quelli degli artisti, tutti italiani o che in Italia vivono da tempo. Una maxi collettiva in cui ogni visitatore potrà (dovrà) ritagliarsi un proprio percorso individuale di osservazione in base a cultura, sensibilità, gusto.
Esistono i temi, vero: quello principale, scelto da Luca Beatrice — il presidente della Quadriennale scomparso lo scorso mese di gennaio, poi sostituito dal docente universitario Andrea Lombardinilo — era ed è Fantastica: da intendersi, ebbe a spiegare lo stesso Beatrice, sia come aggettivo («l’arte italiana è fantastica») sia come imperativo o invito, appunto, a fantasticare (che poi ciascun artista interpreta, giustamente, a suo modo).
Una polisemia, evidentemente voluta, che di fatto non ha messo alcun confine/limite all’immaginazione. Così come nessun paletto di alcun tipo è stato messo nei singoli sotto-temi delle cinque sezioni, come gli stessi curatori confermano nei loro testi introduttivi. Certe parole chiave non vanno quindi interpretate alla lettera, ma ermeneuticamente. La mia immagine è ciò da cui mi faccio rappresentare: l’autoritratto, ad esempio, è il comparto curato da Luca Massimo Barbero, dove, viene subito spiegato, «l’interesse non è tanto per il mito di Narciso, quanto per l’Orfeo di Jean Cocteau, dove lo specchio non è più un oggetto fisico che restituisce un’immagine, bensì una soglia tra due mondi comunicanti».
E infatti di autoritratti veri e propri non ce ne sono (salvo, forse, quello del ventinovenne Roberto de Pinto, un encausto di due metri e mezzo di altezza dove l’artista si raffigura quasi come un San Sebastiano, ma senza martirio né frecce). «L’autoritratto è qui un pretesto e un enigma — dichiara esplicitamente Barbero in merito alla sua intera selezione —. L’autore si mostra in ciò che fa, ma resta fuori da sé. Tredici artisti, di tre generazioni, disegnano un percorso che si muove tra recto e verso, come nei pannelli bifronti che aprono la mostra, ispirati a un’opera rara e privata di Lucio Fontana. Io sono un santo, dice il fronte; Io sono una carogna, il retro».
Niente autoritratti, per Barbero, così come niente fotografie (o quasi) nella sezione in teoria «fotografica» ma che in realtà è dedicata alla «versatilità del mezzo», come tiene a specificare la sua madrina, Mazzonis di Pralafera: «Qui le opere più che riprodurre cercano di rivelare. La fotografia — scrive la curatrice — si discosta dalla sua liturgia rappresentativa e arriva a dialogare con altri linguaggi, oltrepassando i confini della cornice per svelare il suo significato più vero».
Bonami nella sua sezione Memoria piena. Una stanza solo per sé ha invece spinto sui concetti di indipendenza e autonomia degli artisti: a ciascuno uno spazio ben delimitato, che è anche una soluzione allestitiva. Nemmeno il «corpo» citato nella scelta di nomi proposta da Alessandra Troncone sembra indicare un concetto troppo definito. Esso, fin dal titolo, è infatti un «corpo», sì, ma «incompiuto». E le sue «possibili narrazioni», ribadisce Troncone, vanno lette «in un’accezione estesa che include umano e non umano». Stocchi, infine, punta direttamente su una sezione Senza titolo (che è il titolo) e «per esaltare l’atto creativo, dà vita a una prospettiva di autarchia procedurale collettiva».
Dunque: tra ciò che è (ma per i curatori, anche, non è), tra chi punta sull’individualità e chi sul collettivo, tra foto-non-foto e autoritratti-non-autoritratti, e in un generale contesto da Così è (se vi pare), non è troppo azzardato pensare che quasi ogni opera esposta avrebbe potuto in realtà essere accolta in una qualunque delle cinque sezioni. Il visitatore, sia pure senza un vero filo conduttore, si trova comunque di fronte a uno spaccato abbastanza ampio e a tratti suggestivo di quanto oggi offre l’arte contemporanea in Italia.
Presenti peraltro tutti i linguaggi: dalla pittura, anche quella (quasi) tradizionale, al laboratorio hi-tech dove l’opera si fa azienda, come in Lifeweave di Emilio Vavarella, classe 1989, risultato di una (vera) residenza presso il Broad Institute of Harvard and Mit. La creazione in questo caso è una startup in cui dalla saliva del visitatore-cliente si risale a un genotipo, a sua volta in grado di generare arazzi, pezzi unici e irripetibili. Non mancano nemmeno le performance, ed è una delle novità dell’edizione 2025, con artisti coinvolti in prima persona, tutti i giorni, per tre volte al giorno e lungo i quattro mesi della mostra (ad esempio, per conto dell’artista e coreografo Alessandro Sciarroni, classe 1976, nato a San Benedetto del Tronto, un «performer è interprete di un movimento fisico dalle molteplici letture interpretative: rotazione, evoluzione, trasformazione, svolta»).
Ma a colpire, non fosse che per la coincidenza, è soprattutto l’installazione di Friedrich Andreoni, 30 anni, di Pesaro, attivo a Berlino. La sua opera Un tout sans fin ha come protagonista la voce di Claudia Cardinale, scomparsa lo scorso 23 settembre. Friedrich, che da tempo era in contatto con l’attrice, ha finito di montare l’installaizone il pomeriggio di quello stesso 23 settembre. La sera si è avuta notizia della morte della grande interprete. Tema di questo intervento, un’indagine sulla memoria, sui ricordi, sull’immaginario cinematografico. Andreoni ha registrato in presa diretta Claudia, a 86 anni, mentre intona la struggente ballata Sinnò me moro, composta da Carlo Rustichelli per il film Un maledetto imbroglio (1959) di Pietro Germi.
L’inconfondibile timbro della Cardinale restituisce a quella melodia (nel film interpretata da Alida Chelli) un’intensità dolente e irregolare, simile all’eco di un tempo perduto… Il suono proviene dall’acqua contenuta in un fonte battesimale in travertino di forma ottagonale in cui, semisommersa, c’è una piccola scultura in bronzo, in origine la cornice di uno specchio appartenuto all’attrice.
Dalla tintura «con curcuma e bagno di colore estratto dalle bucce di avocado» fino ai bracci robotici microfonati e motorizzati, la Quadriennale è anche una campionatura pressoché infinita di materiali e tecniche, tradizionali o futuribili, come è ovvio per una rassegna che include artisti nati anche a quattro decadi di distanza (tra gli anni Sessanta e la fine degli anni Novanta, di cui solo sedici under 35) e in diversi Paesi, dalla Cina all’Albania. Ci sono anche opere immateriali, o meglio composte quasi solo da suoni, come quella di Donato Dozzy (In acqua), all’anagrafe Donato Scaramuzzi, romano, 55 anni, più noto come dj e producer, uno che in passato ha calcato i palchi di club leggendari per la musica elettronica (e l’alterità dei frequentatori), tipo Berghain di Berlino. Collezionista di vinili (ne possiede 30 mila) a proposito del suo lavoro creativo Dozzy dice: «Per me non esiste il rumore, tutto è suono».
Con uno sforzo produttivo notevole (70 per cento delle opere presentate prodotte per l’occasione), con due milioni e 600 mila euro di finanziamenti in gran parte pubblici (44 per cento Fondazione La Quadriennale di Roma, 40 per cento Direzione generale Creatività contemporanea del ministero della Cultura, 16 per cento soggetti privati) e con un notevole e assai intricato intreccio di competenze (la Quadriennale è partecipata da Mic, Regione Lazio, Roma Capitale, Camera di Commercio) la mostra 2025, realizzata in collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo, è una macchina complessa giunta quest’anno al suo obiettivo nonostante mesi assai complicati in seguito alla prematura scomparsa del presidente Luca Beatrice, lo stesso che aveva fortemente voluto la mostra storica in omaggio alla Quadriennale 1935 la cui cura è stata affidata a Walter Guadagnini. in collaborazione, per la parte documentaria, con l’Archivo Biblioteca della Fondazione.
La formula, a novant’anni di distanza e non potendo certo replicare, nemmeno in forma antologica, i numeri monstre della lontana edizione (1.761 opere di oltre 700 artisti suddivise in 62 sale, 19 delle quali destinate a mostre personali) è quella del sintetico omaggio, per il quale è stato scelto il titolo I giovani e i maestri: la Quadriennale del 1935.
Evitando quanto più possibile la narrazione apologetica del regime, che pure fu uno dei tratti distintivi di quell’esposizione (si pensi, ma è solo un esempio, ai ritratti scultorei di Quirino Ruggeri raffiguranti il gotha del Ventennio, qui assenti) ci si è concentrati — è stato spiegato — sugli artisti premiati, su quelli con una sala personale (non tutti, a dire il vero) e in generale sugli aspetti maggiormente storicizzati di quella importante pagina di storia dell’arte italiana del Novecento.
Tanti i bei quadri riproposti, a conferma di un decennio assai vivace dal punto di vista creativo, ma quasi tutti di nomi noti: Severini, de Chirico, Morandi, de Pisis, Capogrossi (ancora figurativo), Mafai, Scipione… Meno rappresentati invece i minori o i tantissimi dimenticati, sia pure con qualche significativa eccezione, come Luigi Trifoglio.
Una mostra su una mostra, dunque, il più possibile de-fascistizzata e puntando sui diversi versanti estetici, delegando l’estrema complessità di un’epoca più agli apparati documentari e ai saggi in catalogo che alla selezione delle opere. Una scelta da cui non si escludono comunque, come non si esclusero al tempo, un quadro del già antifascista Carlo Levi (arrestato durante il periodo dell’esposizione) o dell’omosessuale ed ebreo Corrado Cagli, nel 1935 ancora giovane corifeo del fascismo, poi rifiutato nelle edizioni del 1939 e del 1943 e costretto a fuggire dall’Italia in seguito alle leggi razziali del 1938.