Diane Keaton, nome d’arte di Diane Hall, detta ‘Annie’, ha surclassato la Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany come icona di stile. Non è frivolo né riduttivo salutare un’attrice così intelligente, discreta e allergica al glamour, morta sabato 11 ottobre a 79 anni, parlando di outfit.

Il guardaroba di Hepburn, a partire dalla petite robe noir che continua a dettare legge, usciva dalla Maison Givenchy. Quello di Keaton era seconda pelle, proiezione interiore e personalissima elaborazione. Diceva di aver “rubato” il look inedito di Io & Annie – pantaloni kaki larghi, gilet e cravatta – dalle donne cool delle strade di SoHo, e il cappello da Aurore Clément, che in visita al set de Il Padrino: Parte II indossava un bolero morbido da uomo calcato giù sulla fronte.

Diane Keaton ne Il Padrino III
Diane Keaton ne Il Padrino III

Senza contare che l’estetica tomboy di Annie era il de profundis della donna-oggetto. Ed è rimasta la sua divisa, fino all’ultimo giorno, integrata da guanti chic che nascondevano le ingiurie del tempo. Mi dilungo sulla materia perché conosco legioni di donne che hanno cercato invano di imitarla. Ma bisognava essere lei o Katharine Hepburn, in alternativa, per non sembrare clown in libera uscita.

Se a trentun anni ti cuciono addosso un film, lo nutrono della tua grazia impacciata, della tua insicurezza e dei tuoi tic fascinosi, gli danno perfino il tuo vero nome e per somma sventura vince 4 Oscar, compreso il tuo, puoi rischiare artisticamente gli arresti domiciliari a vita. Nel senso che ti inchioderanno a un cliché, banalizzato e inzuccherato però, perché non tutti hanno l’estro di Woody Allen e nemmeno il suo sguardo di amante. Evitiamo, per favore, il termine ‘musa’. Implica dipendenza e subalternità, è insopportabilmente sessista (esiste ‘muso’ al maschile?).

La carriera

Imposta da Francis Ford Coppola nel 1972 con Il Padrino e il primo sequel (era la moglie di Michael Corleone), l’incontro in scena con Woody Allen autore e interprete per Provaci ancora, Sam (poi diventato il film omonimo di Herbert Ross) l’aveva già prima, nel 1969, dirottata sulla commedia. Eppure Woody Allen, con cui condivide sette film (Il dormiglione, 1973, Amore e Guerra, 1975, Io e Annie, 1977, Interiors, 1978, Manhattan, 1979, Radio Days, 1987, Misterioso omicidio a Manhattan, 1993) oltre a un bel tratto di vita, è uno dei tre soli registi che la emancipano davvero dai cliché rosa-glassa post-Annie Hall.

La sua Mary Wilkie di Manhattan, radical-chic e pedante quanto seduttiva, è letteralmente indimenticabile. È tanto snob quanto Annie Hall era candida. A lei Allen fa snocciolare quella sequenza di autori di culto liquidati con nonchalance come “Accademia dei sopravvalutati”: da antologia.

Sulla sua vita sentimentale, per somma eleganza, Diane Keaton non si è mai sbottonata davvero. Ma quella per Warren Beatty deve essere stata passione vera, a giudicare dai sobri accenni del poi. Di certo quello di Louise Bryant, l’intrepida compagna comunista di John Reed, che Beatty le ha offerto con Reds, era uno splendido ruolo, che le ha guadagnato anche la seconda delle sue altre tre nomination all’Oscar. Al Pacino, tra i noti, è quello che le è rimasto più amico.

Diane Keaton e Leonardo Di Caprio nel film La stanza di Marvin
Diane Keaton e Leonardo Di Caprio nel film La stanza di Marvin

Quasi nessuno ricorda però la sua più intensa, convinta performance drammatica ne In cerca di Mr. Goodbar, un livido e geniale Richard Brooks del 1977. La Theresa Dunn del film è la più anomala delle sue incarnazioni: insegnante disillusa e claudicante, barfly per rimorchio, la sua storia rivisita un caso di cronaca nera. La prof newyorchese Roseann Quinn era stata assassinata a 28 anni da un amante occasionale, e sulla vicenda Judith Ross aveva scritto un romanzo. L’assassinio finale del film è banale e agghiacciante, di forte impatto, anche perché a commetterlo è un ancora sconosciuto – ma già parecchio intrigante – Richard Gere. Poco nota è anche l’attività di regista di Keaton (nessun rapporto con Buster), che include comunque una commedia di successo tutta al femminile come Avviso di chiamata (2000).

I suoi ultimi anni di cinema sono brillanti e commerciali fino alla monotonia. I titoli più fortunati sono remake mediocri (Il padre della sposa 2), balordaggini per vendere illusioni alle single attempate (Book Club-Tutto può succedere, con relativo sequel italiano da cartolina illustrata), o love story tardive con ex rubacuori come Jack Nicholson (Tutto può succedere-Something’s Gotta Give) e Michael Douglas (Mai così vicini). Gli ultimi due, se non altro, le offrono almeno un buon gioco di coppia. Non tutti i registi sanno amare, capire e valorizzare un’attrice di talento. Non tutti scrivono come Woody Allen. A volte nemmeno Woody Allen.